Qualche giorno fa, su consiglio di un caro e vecchio amico, mi sono trovato a leggere un romanzo in cui, ad un certo punto, si trova la frase seguente:
…la volontà d’ordine della società raccoglie in ricoveri, in ospedali periferici, in asili per malati di mente, anche i relitti umani adulti, separandoli come oggetti, dalla massa degli adatti al lavoro, aspettandone con pazienza contenuta la morte che alleggerirà il bilancio dell’Economia.
[1] Fin qui niente di nuovo, niente che non avessimo già trovato e ritrovato negli scritti di Goffman, di Basaglia, di Castel, di Foucault, di Dörner e di tanti altri.
[2] La ragione per cui lo cito si trova qualche pagina dopo, quando al protagonista, che è anche l’io narrante del romanzo, succede di fare la seguente riflessione:
In realtà non è che io faccia qualcosa; regolo la circolazione della sofferenza, trasferisco da una parte o dall’altra, dalle istituzioni ai privati, i pesi che in essa si accumulano.
[3] Il punto è che in questa osservazione mi sono riconosciuto. Ora, riconoscere nella propria pratica di lavoro, a Torino nel 2015, dopo l’esperienza che non avuto uguali nel mondo del superamento dei Manicomi, qualcosa che è stato scritto a Budapest nel 1969, mi ha spinto ad una serie di riflessioni, per lo più amare; ma perché no?
Come penso si sia capito, il protagonista del romanzo di Konràd è un funzionario
…un funzionario che si affanna dietro al suo materiale umano e che perciò fa da ago della bilancia tra il paradigma astratto e il caso concreto, tra il principio del diritto e la società reale, tra le esigenze umane e le umane possibilità; un funzionario le cui capacità sono sfruttate a metà, disorganizzate, disperse, pedantemente catalogate; un funzionario desideroso unicamente di dimenticare tanto quelli che deve sorvegliare quanto quelli che lo sorvegliano.
[4] Se, anche solo qualche anno fa, mi avessero detto che, in quanto
desideroso di dimenticare tanto quelli che devo sorvegliare quanto quelli che mi sorvegliano, mi sarei riconosciuto e avrei riconosciuto un resto importante del mio lavoro di psichiatra, non ci avrei creduto. Per nostra fortuna il desiderio però ha la caratteristica peculiare di non soddisfarsi, di non acquietarsi dell’oggetto a cui mira, e dunque eccomi qui a non acquietarmi nel desiderio di cessare il mio lavoro di psichiatra al soldo del Servizio Sanitario Nazionale e a continuare invece a far parola, a dire, e a non cessare di dire, attorno a quello che succede.
E quello che ci succede è quanto è sintetizzato nella domanda che è la seguente: com’è che ci siamo trovati ad essere funzionari?
Se avessi la capacità di scrittura di Konràd penso che mi divertirei ad immaginare un dialogo tra uno psichiatra ottocentesco, un positivista di ferro, sicuro che, nel suo progredire, il discorso della scienza avrebbe sottratto l’anima, la
psyché, al dominio dei preti e dei filosofi, uno psichiatra piombato qui, ed ora, dagli anni settanta convinto che l’anima si trovi nel movimento collettivo degli uomini verso la loro liberazione se non verso la loro libertà e, infine uno psichiatra dei giorni nostri che abbia scelto e che conosca approfonditamente la tecnica attraverso la quale si confronta col proprio pezzetto d’anima opportunamente ridotto all’indice numerico che lo identifica.
Ma non sono Konràd e devo limitarmi a porre il problema dell’anima,
della psyché, dello psichico che è l’oggetto del nostro lavoro. Qui incontriamo la prima difficoltà: è l’oggetto del nostro lavoro ma è anche lo strumento col quale lavoriamo. I greci, diversamente da noi, lo sapevano benissimo, tanto è vero che la parola
στοιχείον (elemento) che designa gli elementi fondamentali, i mattoni con cui è costruito l’universo, designa anche la lettera, l’elemento minimo del linguaggio, che quell’universo ci consente di provare a conoscere. Questo significa che c’è un punto in cui l’oggetto della conoscenza e lo strumento per conoscere sono la stessa cosa. Anima che conosce l’anima.
Converrete che non è un terreno molto solido sul quale sostenersi e non sorprende che la medicalizzazione della psichiatria abbia il successo travolgente che ha nel nostro tempo. Qui l’oggetto è chiaro e, soprattutto, è altra cosa dal soggetto conoscente. Basta una PET
[5], un farmaco e un manuale generosamente fornito dall’associazione degli psichiatri americani e la divisione è fatta: soggetto prescrittore e, dall’altra parte, oggetto d’indagine o di cura.
Questa impostazione ha nelle Università e nei Centri di Ricerca i propri templi da cui si diffonde verso la periferia un sapere progressivamente immiserito, ridotto allo straccio vagamente assomigliante a ciò che viene altrove esibito come una bandiera. Se non partiamo da qui non caviamo un ragno dal buco. Se non diamo dignità di sapere ai nostri dubbi e alla diversità delle nostre pratiche e non contrastiamo in qualche modo questo meccanismo, siamo, come probabilmente già siamo, fregati.
Dico che, probabilmente, siamo già fregati perché dare dignità al nostro sapere è qualcosa che non può farsi con un atto di volontà.
Nei dipartimenti di psichiatria ho assisto, tutto sommato impotente, alla morte della clinica e non vedo traccia di riesumazione all’orizzonte.
Chissà che, a partire da non so ancora troppo bene dove, non si possa tentarne una.
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[1] G. Konràd,
Il visitatore, tr. it. Bompiani 1975, p. 78.
[2] Sono sicuro che molti di noi si ritrovano nella propria biblioteca, magari un po’ impolverati, libri come: E. Goffman,
Asylums, tr. it. Einaudi 1975; K. Dörner,
Il borghese e il folle, tr. it. Laterza 1975; F.Basaglia,
L’istituzione negata, Einaudi 1973; R. Castel.
L’ordine psichiatrico, tr. it. Feltrinelli 1980; M. Foucault,
Storia della follia nell’età classica, Rizzoli 1963.
[3] G. Konràd, cit. p. 117.
[5] L’acronimo sta per
Positron Emission Tomografy, ovvero tomografia a emissione di positroni.