Rubrica: Un libro al mese


Marzo 2024
 
Fabrizio Gambini

Elena Loewenthal, Breve storia (d’amore) dell’ebraico, Einaudi 2024.
Ormai siamo abituati a un discorso pubblico che, quando riesce, si fa un vanto dello stare in equilibrio su una tavoletta posta su un pallone: un piede di qua e un piede di là, e la palla al centro. In fisica sarebbe qualcosa come una leva di primo genere, col fulcro tra la potenza e la resistenza. Dunque, un piede che esercita la potenza e l’altro a funzionare da resistenza alla potenza applicata. Esercizio faticoso, senza soluzione o, meglio, la cui unica soluzione è saltare giù dalla tavoletta. Ma non è questo il peggio. Il peggio è che questo tipo di discorso pubblico non consente alcuna forma d’amore, resta ancorato a un equilibro da par condicio che necessita dell’assenza, dello spegnimento, o almeno del soffocamento pregiudiziale di ogni forma di ardore. Il corollario di questo è che il discorso, quando salta giù dalla tavoletta, si fa bercio. Forse qualcuno tra voi ricorda il Gadda di Eros e Priapo che stigmatizza la parola di Mussolini come, appunto, un berciare (nota 1) e nella saggistica nazionale, anche e, forse, soprattutto recente o attuale, non mancano certo gli esempi.
La prima cosa che mi ha colpito del libro di Elena Loewenthal è che la sua breve storia dell’ebraico è una storia d’amore. Nessuna tavoletta, nessun equilibrio e nessun timore: una storia d’amore. Ma qui l’amore non è perdita di equilibrio. È piuttosto condizione stessa del discorso, indirizzo, rapporto all’oggetto. Chiamatelo come volete. Gli psicoanalisti userebbero la nozione di transfert o di fantasma, ma Socrate lo chiamava agalma e Sant’Agostino ci ha costruito attorno le sue Confessioni. 
Quello che è certo è che l’amore di Elena Loewenthal per l’ebraico ci avvicina a quest’oggetto; ce lo fa cogliere nella sua ricchezza e nella sua eccezionalità. Ne cito, a memoria, due punti: la funzione dell’Alef, prima lettera dell’alfabeto ebraico, e la forma della Beth, seconda lettera dello stesso alfabeto. Che ci crediate o no, l’Alef è una consonante, che non ha suono proprio, piuttosto, ci racconta Elena Loewenthal, è il suono dell’aspirazione di chi si appresta a parlare. È una precondizione per ogni emissione di fiato e, dunque, di parola. E poi la Beth (ב) che, come vedete, è una specie di «c» rovesciata, una lettera aperta verso ciò che viene alla sua sinistra. Eh, già, perché l’ebraico si scrive da destra a sinistra, ovvero la mano (per i destrimani) non si frappone tra il segno grafico e la pagina bianca sulla quale si scriverà il testo. Al contrario la mano segue lo svolgersi del testo che si incammina verso il bianco del foglio, verso l’infinito. Leggendo di questo mi sono trovato un po’ a invidiare e un po’ a temere la condizione di mancino. Ormai sapete com’è: ciò che si desidera si teme, non si può non avere timore di ciò che si desidera, non si può non temere il proprio desiderio. C’è solo da sottolineare che Beth è la lettera con la quale inizia la Bibbia. Non vado oltre, nel libro è detto meglio, molto meglio; è detto con rigore e con amore. Leggetelo. È un’indicazione più che preziosa per chiunque voglia mettersi all’ascolto, non tanto di ciò che qualcuno vuol dire, ma di ciò che a qualcuno accade di dire a partire dalla lingua nella quale gli succede di parlare, o di scrivere.
 
nota 1
C. E. Gadda, Eros e Priapo, Garzanti 2002. Quando dico “berciare” mi riferisco a qualcosa di preciso, che, oltre a una sua scomposta attualità ha una sua tragica storia: «…i berci, i grugniti, i sussulti priapeschi, le manate in poggiuolo, e ‘l farnetico e lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo d’una tracotanza villana» (p. 42) e poi, poco dopo: «…non è il berciare da i’ balcone “la santità della famiglia” per poi spaparanzarsi adultero ai tardi indugi di un sonnolento tramonto.» Gadda si riferisce ovviamente a Mussolini e il balcone è quello, famigerato, di Palazzo Venezia.

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