Marco Annoni, La felicità è un dono, Sonzogno 2022.
Federico Faggin, Irriducibile, Mondadori 2022.
Kurt Gödel, La prova matematica dell’esistenza di Dio, tr. it., Bollati Boringhieri 2006.
Edward O. Wilson, Sociobiology, The Belknap Press of Harwad University Press, 2000.
Edward O. Wilson, Le origini della creatività, tr. it., Raffaello Cortina 2018.
Come vedete, questa volta invece di un libro, o due, si tratta di un piccolo arcipelago: libri, isole interconnesse tra le quali navigare a vista.
George R. Price nasce nello Stato di New York il 6 ottobre 1922. Nel 1946 prende il dottorato in Chimica a Chicago ed è coinvolto attivamente nel progetto Manhattan, occupandosi dello studio del plutonio 235. Nel 1967, dopo aver subito un intervento per un cancro alla tiroide, decide di cambiare vita e si trasferisce a Londra, dove incontra il grande evoluzionista Bill Hamilton. Da lì in poi, fino alla morte, Georg R. Price perseguirà un’equazione (Telmo Pievani, Ecco l’equazione di Price, in «7 Complemento al Corriere della Sera» del 6 gennaio 2023) tesa a «racchiudere in una formula matematica il vantaggio evolutivo dei comportamenti cooperativi.» Nel testo di Pievani è citato uno dei libri che vorrei segnalare (M. Annoni, La felicità è un dono).
Quello che in particolare mi interessa segnalare è lo scarto tra l’equazione di Price, morto suicida il 6 gennaio 1975, e la sua aspirazione morale. Nel 1973 Price aveva concepito le «strategie evolutivamente stabili» e tre anni prima era riuscito a «generalizzare matematicamente il principio della selezione di parentela.» Tanto per non restare nel vago scrivo la sua equazione:
wΔz = Cov (wi, zi) E(wi,zi)
Su Wikipedia, e non chiedetemi di più, è definita come l’equazione che, nell’ambito della biologia evoluzionistica e della genetica della popolazione, descrive il cambiamento di un carattere sia esso fenotipico o genetico, da una generazione all’altra.
Come vedete i matemi non riguardano solo Lacan e la psicoanalisi.
Cercando la veste, matematica, certa, algida e oggettiva di un ideale si può, come è successo a Price, impazzire. L’ideale è quello di un altruismo geneticamente determinato che sottragga l’altruismo stesso ed essere un valore etico e morale fondamentalmente incerto, aleatorio, che può esserci come non esserci; dipende. Se ne vorrebbe piuttosto il radicamento, se non proprio biologico, almeno logico. In fondo non siamo più alla fisiognomica o al positivismo lombrosiano. Se ne vorrebbe il radicamento biologico attraverso la dimostrazione della sua inevitabilità logica e del suo essere risultato perfettamente computazionale.
Era già successo a Edward O. Wilson, che si muove agevolmente in un universo concettuale che parte da the organism is only DNA’s way of making more DNA (E.O. Wilson, Sociobiology, cit. p. 3: L’organismo è soltanto un modo del DNA per produrre altro DNA), per approdare a perché la natura è madre (E.O. Wilson, Le origini etc, cit. p. 107). Il passaggio è sintetizzato benissimo dallo stesso Wilson:
Man mano che comportamenti sociali sempre più complessi degli organismi si aggiungono alle tecniche dei geni per replicare sé stessi, l’altruismo diventa progressivamente prevalente e finisce perfino per apparire in forme esagerate. Questo ci conduce al problema teorico centrale della sociobiologia: come può l’altruismo, che per definizione riduce il benessere personale, avere la possibilità di evolvere attraverso la selezione naturale? La risposta è la parentela: se i geni causanti l’altruismo sono condivisi da due organismi a causa della loro discendenza comune e se l’atto altruistico di un organismo incrementa il contributo comune dei geni stessi alla generazione successiva, la propensione all’altruismo si espanderà attraverso il patrimonio genetico (E. O. Wilson, Sociobiology, cit. pp. 3 e 4).
Wilson trae dall’osservazione scrupolosa della vita dei formicai e dalla matematizzazione delle osservazioni effettuate, conseguenze logiche, formali e formalizzate, che riguardano il complesso della società degli uomini.
In qualche modo era già successo anche a Gödel, che, a suo modo, cercava una teoria unificata del tutto. La sua ricerca matematica attorno alla nozione di infinito era della stessa pasta, dello stesso desiderio, della ricerca della prova matematica di Dio. Il punto, mi pare, è sempre uno: un limite che il fatto di comprendere matematicamente non elimina come limite, come percezione di una barriera e di un impossibile.
Solo pochi giorni fa un mio carissimo amico mi raccomandava entusiasticamente un altro libro, un’altra isola dello stesso arcipelago (A. Faggin, Irriducibile). Di irriducibile c’è in effetti il desiderio di quadrare il cerchio e di fare della fisica quantistica non tanto e non solo la base teorica per la costruzione di un computer quantico, bensì la chiave per pensare il funzionamento psichico nello stesso modo in cui la fisica dell’ottocento era, apparentemente, il modo per pensare lo psichico al tempo di Freud. Come se non fosse stato proprio il modo diverso di pensare di Freud a consentire la scoperta dell’inconscio e l’invenzione della psicoanalisi.
In altre parole, il problema non riguarda le sorti magnifiche e progressive che la fisica attuale comporta come evoluzione epistemica dello studio della psiche. Piuttosto è che la faglia tra proposizioni letterarie o poetiche che illustrano il funzionamento psichico individuale o collettivo e i matemi sempre nuovi tratti dall’avanzamento della fisica e della matematica, continua a restare tale: una faglia, una frattura che ci obbliga a procedere con un piede di qua e uno di là. Una faglia, insomma, che si può solo bordeggiare.