01/09/2019

I nostri tempi


di Fabrizio Gambini

Un giorno un giovane Emmanuel Carrère, scrittore alle prime armi, intervista a Cannes Werner Herzog. Carrère aveva già scritto e pubblicato in Francia una monografia sul regista; questo  il suo racconto:
 
Tramite il suo addetto stampa, la vigilia dell’incontro gli avevo fatto avere il mio libro. Sapevo che Herzog non leggeva il francese, e quindi non mi aspettavo chissà quali commenti, ma almeno che ricevesse un ragazzo che aveva passato un anno a scrivere un saggio sui suoi film con un po’ più di calore di quello riservato ai giornalisti scafati, a cui, a blocchi di tre quarti d’ora a testa, dedicava l’intera giornata. Mi ha aperto lui stesso la porta della sua suite al Carlton. Indossava un’informe maglietta a maniche corte, un paio di pantaloni da lavoro e pesanti scarponi da trekking, sembrava appena uscito dalla sua tenda al campo base dell’Everest sotto una tempesta, e naturalmente non sorrideva: tutto in regola. Io invece sorridevo, pure troppo. Temevo che l’addetto stampa non lo avesse avvertito e che Herzog mi scambiasse per uno dei soliti giornalisti, ma quando ci siamo seduti ho visto il mio libro sul tavolino e ho farfugliato in inglese qualcosa come: “Ah, gliel’hanno dato. So che non può leggerlo, ma…”
Mi sono fermato, sperando che continuasse lui. Mi ha guardato un istante in silenzio, con l’aria saggia e severa che immaginiamo avessero Martin Heidegger o Meister Eckhart, poi con una voce molto bassa e allo stesso tempo dolcissima, una voce assolutamente magnifica, ha detto, ricordo le sue esatte parole: “I prefer we don’talk about that. I know it’s bullshit. Let’s work”. Let’s work voleva dire: facciamola l’intervista, mi tocca, fa parte delle rotture inevitabili, come le zanzare in Amazzonia. Ero così timido e stupito che invece – invece di cosa? di alzarmi e andarmene? di dargli un pugno? Quale sarebbe stata la reazione adeguata? – ho acceso il registratore e gli ho rivolto la prima domanda che mi ero preparato. Lui ha risposto, come alle seguenti, in modo molto professionale.
 
E più avanti commenta:
 
Un amico a cui ho raccontato la mia disavventura mi ha detto ridendo: “Così impari ad ammirare i fascisti”. Un giudizio drastico e, penso, motivato. Herzog, che pure era capace di provare una fervida compassione per un aborigeno sordomuto o un vagabondo schizofrenico, considerava un giovane cinefilo con gli occhiali una cimice che meritava di essere moralmente schiacciata, e io ero il candidato ideale a quel trattamento.
Mi sembra che qui sia in gioco qualcosa che costituisce il centro nodale del fascismo. Che cosa troviamo, se questo centro lo mettiamo a nudo? A voler essere radicali, una visione del mondo indiscutibilmente scandalosa: Übermenschen e Untermenschen, ariani ed ebrei, d’accordo – ma non è di questo che voglio parlare. Non voglio parlare né di neonazisti né di sterminio dei presunti esseri inferiori, e nemmeno del disprezzo esibito con la ruvida franchezza di un Werner Herzog, ma del modo in cui ciascuno di noi si rassegna al fatto ovvio che la vita è ingiusta e gli uomini e gli uomini non sono uguali: più o “Preferisco non parlarne. So già che è una stronzata. Mettiamoci al lavoro”.
 
meno belli, più o meno dotati, più o meno attrezzati per la lotta. Nietzsche, Limonov e questa istanza in noi che io definisco “il fascista” dicono in coro: “È la realtà, il mondo così com’è”. Che altro dire? Quale potrebbe essere l’alternativa a questa ovvietà? “Lo sappiamo benissimo” risponde il fascista. “La pia menzogna, il buonismo di sinistra, il politicamente corretto, tutte cose più diffuse della lucidità”. Io invece direi: il cristianesimo. L’idea che nel Regno, che non è certamente l’aldilà ma la realtà della realtà, il più piccolo è il più grande.

Non è detto male, anzi, io trovo che sia detto benissimo. E la realtà della realtà è qualcosa al cui ascolto un orecchio analitico dovrebbe essere particolarmente addestrato.

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