01/03/2020

I geroglifici di Sir Thomas Browne


di Fabrizio Gambini

Browne era innanzi tutto un homo religiosus; pago della magnanima dovizia trasmessa dalla tradizione, felice di trovarsi in quel punto dove la parola tace […] Browne aspirava, se mai, all’utopia della glossa ininterrotta e la sua opera intera è un’approssimazione a quell’utopia […] Era in lui, piuttosto, l’inclinazione a una via obliqua, che sfiora le cose nella loro ombra, una fede nell’impotenza del nominare.
R. Calasso, I geroglifici di Sir Thomas Browne, Adelphi, Milano 2019.


Come si vede dalla nota bibliografica, l’ex-ergo è tratto da un libro recente di Roberto Calasso. Correte a comprarlo, e leggetelo. Si tratta della tesi di laurea di Calasso (1965), ed è già tutto lì: gli intersegni, i legami e i rimandi subliminali, i miti egizi, greci e induisti, fino alla lettura della Bibbia e fino all’innominabile attuale. Una vita di studio e di ricerca aggrovigliata attorno al punto dove la parola tace. Alcune formulazioni sono folgoranti. Ad esempio questa:
Ma ciò che colpisce come carattere distintivo di Browne è che quella corrispondenza [il principio ermetico della corrispondenza tra superiore e inferiore] si presenta immediatamente in termini di scrittura – come traduzione di stenogrammi naturali in “una qualche sostanza più reale di quella struttura invisibile” …Fra tutte le figure e le possibili versioni atte a rappresentare la dottrina ermetica, vedremo che egli sceglierà sempre immagini di scrittura e di lettura.
Calasso riprende una definizione del mito di Claude Levi-Strauss, una tra le definizioni “meno inadeguate”:
Secondo una delle definizioni meno inadeguate, il mito – o fabulazione fondatrice di realtà – è una costruzione formale che media tra opposti fondamentali e irriducibili.[1] …La nostra ipotesi è che quell’immagine del linguaggio geroglifico che perdura fino alla decifrazione di Champollion abbia un significato mitologico supplementare: quell’interpretazione platonica dei geroglifici vale in Occidente da mito mediatore fra le opposizioni implicite nella scrittura alfabetica.
Due opposti, fondamentali e irriducibili. Questo, ha scritto Lacan,
…ci spinge a reinterrogarci sulla sostanza vera, sull’osso duro, del pensiero di Freud allorché fa qualcosa che, senz’alcun dubbio, ha condotto a tutta questa esperienza, a tutto questo materiale che si ordina in termini di sviluppo ideale. Questo materiale, nel suo principio, alla sua origine, trova i suoi termini, la sua tensione, la sua opposizione fondamentale, nell’opposizione, per definirla in questo punto, indicata dal suo nome, tra processo primario e secondario, tra principio di piacere e principio di realtà. Si tratta di un sistema di riferimento completamente altro, di tutt’altro ordine di quello al quale lo sviluppo e la genesi – credo do avervelo fatto sentire a sufficienza, anche se obbligato a farlo in modo sbrigativo, penso comunque di avervelo fatto sufficientemente percepire – non danno che un supporto incostante.[2]
Browne, prosegue Calasso, è appassionato lettore delle immagini della natura, viste come signaturae dell’invisibile nel visibile. (34) e cita un passo di Browne:
[Il Liber Naturae è] il manoscritto pubblico e universale sempre aperto agli occhi di tutti…Fu questa la Sacra Scrittura e la teologia dei pagani; il corso naturale del sole portò costoro a tributargli una maggiore ammirazione di quanta la sua posizione soprannaturale ne ottenne dai figli di Israele; gli effetti ordinari della natura destarono un maggiore entusiasmo negli uni, che tutti i suoi miracoli negli altri; indubbiamente i pagani erano più capaci di collegare e leggere quelle mistiche lettere, di quanto lo siamo noi cristiani, che volgiamo uno sguardo meno attento a questi comuni geroglifici, e non ci degniamo di succhiare la teologia dai fiori della natura.
E, prosegue Calasso,
…Il Liber Naturae non è dunque scritto in caratteri matematici, ma in immagini; o meglio, è un testo composto di segni acustici e visibili, corrispondenti fra loro e, al tempo stesso, adombranti una realtà superiore e invisibile. (p. ?)
Non è insomma il Libro della Natura di Galileo che, come si sa, è scritto in caratteri matematici. Che sia questo - oltre al soggetto cartesiano, soggetto che, come fa notare Lacan, è soggetto della scienza e che, per questo, è introdotto il discorso della scienza nell’epoca della sua affermazione – che ci introduce nella modernità? Se quel libro è scritto in caratteri matematici la sua lettura e decifrazione può essere infinita, come infinita è la ricerca scientifica, ma non può albergare il mistero. Prima di Galileo, sophia, mitologia e religione si erano incaricate di saperci in qualche modo fare con quel mistero, con la presenza del mistero, dell’ulteriore nel sensibile. Con Galileo il mistero scompare per lasciare spazio all’enigma.[3] La psicoanalisi che non sarebbe potuta esistere senza il trionfo del discorso della scienza, senza la matematizzazione del libro della natura, si incarica di tener vivo quel mistero, di continuare a saperci fare con lui, interrogando il reale invece della realtà.
“…gli antichi dicevano che le idee sono degli esseri e delle sostanze”. A questo punto Plotino fa riferimento ai geroglifici: “…per designare le cose attraverso la sophia non si servono di lettere disegnate, che si sviluppano in discorsi e proposizioni e rappresentano suoni e parole; disegnano invece delle immagini, ognuna di una cosa distinta; le incidono nei templi per designare tutti i caratteri di quella cosa; ogni segno inciso è dunque una scienza, una sophia, una cosa reale, colta immediatamente, e non un seguito di pensieri come un ragionamento o una deliberazione”…la sophia insomma fa accedere per conoscenza immediata al mondo intelligibile…si tratta, in Plotino, della superiorità dei geroglifici sul linguaggio discorsivo.
Dunque la sophia come accesso diretto alla cosa reale. E così Lacan:
La Sache, direi, è dunque proprio questa cosa, prodotta, se si può dire, dall’industria dell’azione umana in quanto azione diretta, governata dal linguaggio. Le cose insomma sono alla superficie, sempre alla portata di essere esplicitata, per quanto, all’inizio, possano essere implicite nella genesi di questa azione. In effetti ci troviamo tra i frutti di un’attività della quale si può dire, per quanto è soggiacente, implicita a ogni azione umana, che è dell’ordine del preconscio, di qualcosa che il nostro interesse può far sorgere alla coscienza a condizione vi prestiamo abbastanza attenzione, che ci facciamo caso. È qui che si situerà questa posizione reciproca della parola, in quanto si articola, che giunge a spiegarsi rispetto alla cosa. In quanto azione, essendo questa stessa dominata dal linguaggio, ovvero dal comandamento, la parola avrà isolato quest’l’oggetto e lo avrà fatto nascere.
      Sache e Wort sono così strettamente legate tra che sono come una coppia, Non succede lo stesso con das Ding, con la cosa dove si situa questo incontro. Questo peso di das Ding, della Cosa, è quanto vorrei mostrarvi oggi nella vita. Mostrarvi che nel principio di realtà, per come Freud lo fa entrare in gioco dall’inizio del suo pensiero, questo das Ding si situa altrove che in questa relazione, in qualche modo riflessa per quanto è esplicitabile, che fa sì che l’uomo metta in questione le sue partole come riferentesi alle cose (Sache) che esse hanno comunque creato, Altra cosa è das Ding. Il vero segreto è cosa ci sia in das Ding.[4]
Infine, un pensiero rivolto a Walter Benjamin che, come ricorda Calasso, progettava un libro fatto di sole citazioni. È utile ricordare, di questi tempi, che sono esistiti ideali simili.
 

[1] Claude Lévi-Strauss, L’analyse morphologique des contes russes, in « International Journal of Slavic Linguistics and Poetics », III, 1960, pp 147-49.
[2] Lacan, L’éthique de la psychanalyse, Séminaire 1959 – 1960, edizione fuori commercio dell’Association Lacanienne Internationale, lezione del 25 novembre 1959.
[3] Cfr. K. Kerény, Nel labirinto, tr. it. Boringhieri, Torino 1983.
[4] J. Lacan, cit. lezione del 9 dicembre 1959.


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