01/06/2015

TTZOI


di Marilena De Luca

J. Lacan non cessa mai di metterci in guardia dalla possibilità di confondere il “sapere” dell'inconscio con il “sapere” sull'inconscio.  «…l'homme donc, puisque j'ai parlé de l'homme, l'homme ne s'en tire guère, de cette affaire de savoir. Ça lui est imposé.  Ça lui est imposé par ce que j'ai appelé les effets de signifiant, et il n'est pas a l'aise, il ne sait pas faire avec le savoir.»[1] «..Avec ce matériel, il ne sait pas y faire.»[2] Con questo materiale, che ci abita e che sa di noi, senza che possiamo far altro che riconoscerlo dagli effetti, quelli che chiamiamo formazioni dell'inconscio, l'uomo non sa bene che fare. L'uomo, anche quando si pensa nella posizione di psicanalista, fa i conti con la sua divisione radicale, in nessun modo può aspirare a fare qualcosa del materiale che è suo eppure altro, può solo accontentarsi di saperci fare.
 
 «Ça ne peut pas se dire, ce y faire, dans toutes les langues. Savoir y faire, c'est autre chose que de savoir faire.  Ça veut dire se débrouiller. Mais cet y faire indique qu'on ne prend pas vraiment la chose, en somme, en concept.»[3]
 
Anche la lingua italiana ci permette di giocare tra fare qualcosa e farci qualcosa, tra saper fare e saperci fare. Il che per lo psicanalista prende talvolta la forma del non fare, del girare intorno, del saper attendere, con tutto il tempo, l'impegno, la difficoltà che formarsi a questo “far nulla” richiede. Inoltre, se non erro, si tratta di esserci, ma non nella modalità di un “io sono...”. Potremmo dire esserci in “un vuoto di intervento”? Richiede in qualche modo un'arte tutto ciò? 
 
L'artista è tradizionalmente colui che forgia, plasma, monta, compone, disegna, colora, suona, interpreta. Insomma, colui che cerca di trasformare la materia con la propria energia fisica e mentale in qualcosa che corrisponda a quanto chiede di uscire da lui e andare nel mondo. Tuttavia di fronte agli orrori del nazismo e della II guerra mondiale l'artista perde le sue certezze, non trova più rassicurazione nella geometria e nel rigore matematico, si sente incapace di trasmettere senso. Nasce l'“Informale”, nelle sue principali correnti gestuale e materica.
 
Se la prima con il "gesto” aspira ad annullare qualunque momento cosciente, che cerchi di razionalizzare o spiegare ciò che proviene dall’inconscio, la seconda tende a rompere il confine tra immagine bidimensionale e immagine plastica, proponendo opere che non sono più classificabili nelle tradizionali categorie di pittura o scultura. Tuttavia alcuni critici notano che molti di questi artisti sembrano in difficoltà ad accettare fino in fondo gli effetti del proprio intento, l'insubordinazione della materia alla propria volontà, per cui sentono il bisogno di “intervenire” con un di più di colore, di taglio, di bruciatura come uno psicoterapeuta che non resista alla tentazione di un intervento protesico, di immissione di un proprio senso.
 
Se mi si consente l'ardito parallelismo, mi tenta allora, a mo' di semplice suggestione e non di spiegazione, paragonare la posizione ideale dell'analista a quella degli artisti Stefano Forgione e Pino Rossi che nel mondo dell'arte sono conosciuti come TTOZOI. Già l'origine del nome che si sono dati è interessante, la fanno derivare da “spermatozoidi”. La doppia “T” simboleggia il fatto che siano in due per conquistare la parte femminile dell’arte rappresentata dalla tela e far nascere così un nuovo essere. Non “fronteggiano” la tela, ma la pongono distesa orizzontalmente il loro medium sono tradizionali pigmenti e spore che daranno vita a muffe. Chiedono alla muffa di farsi colore, segno, gesto pittorico. Chiedono ma non impongono.  Intervengono   girando intorno alla tela, al che attribuiscono l'equilibrio cromatico e spaziale dei loro lavori, che consente libertà nella scelta del senso in cui collocarli. Si coglie una rinuncia al controllo e al possesso, che si conferma nell'attendere, poi, per mesi, spesso più numerosi di quelli richiesti da una gravidanza, che le spore, seminate sulla tela, prolifichino sposandosi liberamente coi pigmenti.
 
"Le spore - spiegano gli artisti - prive di qualsiasi memoria formale e tecnica, non determinano più un'esecuzione, ma un atto che si esaurisce con la creazione naturale. Non creiamo nuovi eventi ma sappiamo farli accadere, lasciando il racconto delle opere ad un automatismo naturale slegato da qualsiasi intento descrittivo".  Il loro progetto artistico consiste nel reinterpretare l'arte creativa non più come “gesto”, ma come “non gesto”, come “vuoto d'intervento”. Ma è poi necessario un “taglio” nel momento suggerito dalla sensibilità estetica. La muffa muore perché fermano il suo microclima evolutivo, in quel momento nasce un’opera. Dall'idea antica di rappresentare la vita nella pittura si arriva ad aspirare a trasferire la vita sulla tela: si offrono spazio ed elementi grazie ai quali si sviluppa la vita che nasce, si nutre e poi muore, lasciando la sua impronta.
 
Come si legge il paradosso di una produzione nel riposo? L’esegesi biblica chiarisce assai bene il punto: Dio non crea il mondo in sei giorni ed il settimo si riposa. Dio crea il mondo in sette giorni, di cui uno, l’ultimo, lo passa a starsene fermo e buono a vedere quello che aveva combinato negli altri sei. Le religioni del libro concordano su questo punto che, per legge divina, ci sia nella settimana un giorno dedicato al vuoto d'azione ed alla contemplazione che non sono non fare nulla.

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[1]           J. lacan «L'insu que sait de l'une-bevue s'aile à mourre»,  Séminaire 1976-1977 Éditions de l'Association       Lacanniene Internationale, La Plaine Saint-Denis, août 2014, pp. 48-49
[2]          Ibid. p.49
[3]          Ibid. p.49


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