01/04/2015

Perché io?


di Nazir Hamad

Come conclusione, prenderò una frase che è stata lanciata più volte durante queste giornate. La frase “Perchè io?”. “Perchè io?” è una frase che conosciamo bene. È, nei fatti, una lamentela, ma una lamentela che io qualifico ipocrita.
Perché? Perché questa lamentela implica almeno due posizioni che non sono sempre chiare per noi, in quanto restano sullo sfondo. Per il momento, consideriamo che implichi almeno due posizioni..
La prima: perché io in quanto eletto; la seconda: perché io in quanto condannato.
Ma eletto o condannato da chi? Chi è che mi tormenta lungo tutta la giornata? chi mi tiene sotto controllo e determina il mio destino, chi mi impedisce di dormire, chi mi impedisce di essere felice, chi mi impedisce di avere ciò che voglio, o i genitori che voglio, o la fortuna che voglio, e così via, o il fisico che voglio.
È una lamentela che ci accompagna lungo tutta la nostra vita. Nessuno riesce a scappare da questa lamentela. “Perché io?"
Siete sull’autostrada, siete fotografati dall’autovelox, nonostante siano passate prima di voi 36 automobili, che non sono state fotografate: “perché proprio la mia?”. Siete all’aeroporto, centinaia di valige sono passate davanti a voi…ma la vostra valigia…”ma perché io?” e se sono un po' paranoico, penso: è perché sono arabo, ecco, sono perseguitato perché sono arabo”.
Sono perseguitato perché sono adottato. Quando non si capisce perché, ecco che arriva la domanda: perché proprio io?
Qual 'è allora la risposta?
Ho fatto una volta la domanda ad un doganiere che doveva recuperare la mia valigia, mi ha risposto: è un caso statistico. Il nostro destino allora è fatto dal caso statistico? Ecco cosa significa questa domanda, perché io: il nostro destino è fatto dal caso statistico? È questa la questione.
Perché penso a questa frase per concludere queste giornate? Perché a partire da questa frase, attraverso questa frase, si può provare a determinare ciò che fa la differenza tra il figlio adottivo, e il figlio cosiddetto naturale, biologico.
Marika Bergès-Bounes l’ha detto poco fa molto bene. Quando sono arrabbiato contro mia madre, posso arrivare a dire: una madre così non è mia madre e sono tranquillo e mia madre pure. A volte mi accade di prendere alla lettera un bambino che ho in terapia, quando dice: io non amo mia madre, non è mia madre; se è un figlio biologico, gli chiedo: ci sono dei grandi magazzini nel tuo quartiere? Si, risponde. Ed io: allora puoi chiedere se hanno delle madri, così puoi sceglierne una. Il bambino mi guarda e dice: ma no, non si comprano le madri. Allora io gli dico: vedi, faresti bene a tenerti questa madre, se non se ne vendono. Di questo si può ridere con un figlio biologico, ma con un figlio adottivo non c' è niente da ridere.
Perché? Perché se è un bambino adottivo che dice così, ebbene, in un certo senso è vero. Non è sua madre biologica; dunque si può comperare una madre, perché no? È per questo motivo che questi bambini pongono tutta una serie di questioni in termini di "vero". Il vero: la vera madre, la vera famiglia, il vero destino. E così di seguito. Questo va a toccare la dimensione di ciò che chiamiamo l'Altro, di un appello all'Altro, perché ogni questione è lanciata verso di lui: cosa vuole l'Altro? Il fatto è che per il bambino adottivo l'Altro ha voluto qualcosa per lui, ed è nella confusione tra l'Altro materno, quello appunto che ha voluto qualcosa che lo ha riguardato, e l'Altro nel senso in cui noi intendiamo questo termine in psicoanalisi, e cioè il campo, il tesoro del linguaggio, ciò per cui non riusciamo a raggiungere direttamente l'oggetto, ma solo attraverso la parola; è dunque un Altro che non risponde, e che rimanda ciascuno a trovare la propria risposta.
Questa è una prima questione.
La seconda: come ha detto Marika poco fa, quando questi bambini entrano nella loro nuova cerchia familiare, prima o poi, constatano che i genitori non sono terribili, ma mancanti, insufficienti.
Ed è illuminante la risposta che Martine Lerude ha dato a questo proposito: perfetto! una mancanza cioè è perfetta proprio perché è mancante; si è perfetti perché si è mancanti, altrimenti si è del tutto nocivi.
La difficoltà però dei bambini adottivi è che, per loro, immaginario e reale si sovrappongono; quando scoprono, come tutti, che i propri genitori sono mancanti, quando si rivoltano contro di loro, si scontrano con il fatto che per loro i genitori della realtà occupano il posto dell'immaginario: io sono un bambino abbandonato, sono un bambino adottato[1].
Hanno quindi difficoltà a fare uno snodo tra immaginario e reale, al punto da non iscrivere qualcosa che costituisce la filiazione come simbolica.
C'è dunque questo puro lamento, perché io? e poi, l'ho sentito dire molte volte: io non ho chiesto niente, sono loro che mi han voluto adottare. È una questione che ritorna spesso e che bisogna intendere bene.
La vita che sto vivendo è proprio la mia vita? La mia vita di bambino africano è la mia vita, la vita di questo bambino che io sono in Francia? Il mio destino di bambino africano è il mio destino di bambino in Francia? Guardate, questo è un lamento che tutti conosciamo bene: fate un grave incidente, a causa del quale siete feriti gravemente e vi trovate a dire: “non mi riconosco più…non è più la mia vita…”; siete marchiati; qualcosa è venuta a marcarvi. Ma cosa vi ha marchiati? È la morte che è venuta a marchiarvi ed ha lasciato delle tracce, che vi rimandano all’Altro.
Di colpo, siete andati troppo lontano, e non sapete spiegarvi proprio cosa sia successo, perché. Avete incontrato il reale. Avete avuto un incontro faccia-a-faccia così feroce con questa dimensione. Nel senso della morte.
E i bambini africani? Vi restituisco una scena che trovo veramente molto importante.
Una ragazzina mi dice: “cosa mi dice che il mio destino è il mio destino se fossi stata in Africa?”
Gli ho risposto che saperlo, statisticamente, è una cosa possibile: “sei nata in quel villaggio; puoi andare a fare uno studio statistico di cosa sono divenuti i bambini della tua generazione. Statisticamente puoi essere questo o quello. Potresti essere più o meno così o colà. Ecco, se ti accontenti di una risposta statistica…una risposta c’è. Ma la vita non è statistica. La vita è qualcosa d’altro, e tu lo dimentichi…
Mi ha chiesto: “cosa dimentico?” Ho detto: “delle evidenze.” Mi ha guardato e mi ha detto: “non trovo…”
Ho detto: “vedi perché ti lamenti? Perché non ti trovi. E sai perché non ti trovi? Non hai mai inscritto, nel tuo destino, il tuo destino di bambina adottata.”
 Si fa come se l’adozione non si inscrivesse nel vostro destino. Come se l'adozione vi avesse strappato al vostro destino.
Altrimenti detto – e potrebbe essere proprio questa la difficoltà – la questione è di credere che si possa vivere delle vite parallele. Ci sono persone che lo fanno. Ma nella testa di questi bambini che non si riconoscono nelle loro vite, c’è sempre la questione di calcolarsi come coloro che vivono una vita altra. Ed è questa vita altra che è vera.
Perché è proprio questa vita altra ad essere vera? Perché, effettivamente, c’è un Altro che è supposto rispondergli e, giustamente, questo Altro – contrariamente all’Altro nel senso psicoanalitico, nel senso lacaniano – può rispondere, perché c’è una confusione all’interno dell’Altro materno: la madre che ha abbandonato è l’Altro che non risponde. E fintanto che credono, per una ragione o per un’altra, che ci sia una risposta da ottenere continueranno a chiedere “cosa voleva da me mia madre? Perché mi ha abbandonato?” In mancanza di risposte, si identificheranno, a colmare il buco, ad uno oggetto di scarto, un rifiuto. "Se mia madre mi ha abbandonato, aveva ragione a farlo, perché io non valgo la pena”.
Ma perché fa questo? Perché il bambino adottato vuole salvare qualcosa. Vuole salvare questa madre. Vuole salvare questa speranza.
Ma salvare perché? E a partire da cosa?  
Ecco tutta la questione di ciò che permetterà a ciascun figlio adottivo di inscriversi, o no, nella filiazione.


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[1] È un fantasma frequente del bambino immaginare che i suoi veri genitori sono altri, e che i suoi genitori, quelli con cui sta crescendo, sono dunque adottivi. Vedi lo scritto di Freud, Il romanzo familiare del nevrotico, 1908.


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