01/02/2019

Morire di vergogna


di Elena Garritano

È il 1925 e su un giornale francese compare la notizia di una denuncia di oltraggio al pudore.
Paul Grappe è un ferito di guerra, la prima volta per davvero, la seconda per opera della sua stessa mano, si mutila infatti il dito destro per sfuggire alla trincea. Non basta, e allora si dilegua, scompare nel nulla, sua moglie Louise dice di non sapere più niente di lui, e di provare ad andare avanti da sola, a sopravvivere dividendo le spese con la nuova, sfacciata, stravagante coinquilina, Suzanne Landgard (F. Virgili e D. Voldman, 2011).[1]
È solo con l’amnistia dichiarata in Francia sette anni dopo la fine del conflitto mondiale che Paul ricompare: ammette di non essere mai andato via, di essersi nascosto nei panni di una donna, quella stessa Suzanne da sempre sotto gli occhi di tutti. È solo con l’amnistia poi che ammette di non aver rifiutato dell’uomo soltanto l’attributo virile di combattente per la patria, perché adesso, ironia della sorte, è la transizione opposta da donna a uomo che gli appare impossibile. Arrivano la notorietà della sua storia e nuove diserzioni: la violenza da cui voleva sfuggire come uomo, la esercita ora che è costretto a rivestire i suoi panni di padre di famiglia, inizia la dipendenza da alcool. Una sera, in un bar, arrabbiato per l’interrogatorio sulla sua virilità, si presta all’esibizionismo. Di qui la denuncia, perché “dovrebbe vergognarsi”, ma quale ingiunzione contraddittoria è questa (F. Lelièvre, 2010)![2]
Anche i giovani d’oggi dovrebbero vergognarsi, lo sostengono da sempre tutti i vecchi, ma questi nativi digitali scambiano continuamente immagini e filmati, che sono oggetto e strumento di condivisione. Poi, il gioco superficiale che mostra gli altri nudi o goffi può diventare una umiliazione, perché il virtuale esiste ed è vero quanto una bugia, oppure una minaccia, persino passibile di denuncia. I ragazzi si rendono ambasciatori di una pena: la parata di foto intime si fa questione etica ed estetica, si tratta di rispetto e di brutture da risanare (F. Duparc, 2003)[3], tutti hanno bisogno di essere visti e riconosciuti, senza esser ridotti a meri oggetti dallo scherno altrui, non è in gioco solo un’apparenza, ma la propria identità, a pelle sale lo schifo profondo. La vergogna è infatti sempre una questione di pelle (A. Ciccone e A. Ferrant, 2010; M. Selz, 2012; J. Chevallier, 2012)[4]: le stimmate fisiche della sifilide, il numero tatuato degli Ebrei… una piaga indelebile, una macchia che si imprime come la lettera scarlatta: una maledizione condivisa, collettiva, dunque, si fa rossore sulla carne viva, come sempre. Non è forse arrossire il segno della vergogna? Questo sangue che celato nelle profondità del corpo scorre su, risale verso la superficie e dimentica di dover restare nascosto fa della vergogna un affetto che invade il corpo nella sua parte visibile, una brutalità che svalorizza immediatamente il proprio aspetto, perché ci si sente denudati di una maschera. Non si sentiva di averla, non si voleva mentire, ma si vorrebbe tanto tornare ad un attimo prima dell’imbarazzo. La reazione è molto personale ma irriconoscibile. La verità è che si sta osservando qualcosa di immondo, o meglio di a-mondo, cioè che non appartiene al proprio mondo, non si può dire che sia sconosciuta ma non ci si riconosce più dentro. Cade un ideale, resta la propria mancanza, definir la vergogna una perdita di controllo, come quando si dorme o si è inermi in ospedale, è però riduttivo. È una mancanza ontologica ed è imparentata con l’angoscia (J. Lacan, 1962-1963)[5] e, soprattutto, lascia senza parole. L’uomo è l’unico animale che arrossisce, l’unico ad averne bisogno, diceva Mark Twain: S. Freud (1913)[6] scrive che quando ci si occupa di corporeità, ci si imbarazza per la natura troppo animale dell’uomo, e se si trattano argomenti sconvenienti, si finisce per essere considerati sudici, come se un’intimità sporca fosse contagiosa, lo si osserva nella sua trasmissione generazionale o nella condizione paradossale del testimone: non si può pensare di raccontare una esperienza traumatica senza che questa spazzi via anche un po’ il suo narratore. La scissione tra pietà e derisione si verifica spesso in chi si occupa tutti i giorni di vergogne, dimenticando quella benevola consolazione che potrebbe essere l’umorismo, resta il disprezzo reciproco, perché la vergogna, a differenza della colpa, non può approfittare della rimozione, o del perdono. Si tratta di guardare e far vedere, come in tutta la questione della contemporaneità, cinica e perversa, quella che nei luoghi comuni ha una scienza che espone microscopicamente i corpi, tutti sono in televisione con i loro mali, si fa vanto dei difetti personali e si intende difendere la verità facendola vedere, gridandola anche in modo indecente. Persino la psicoanalisi nata come dirompente, nel suo imperativo di “dire tutto” senza censure, sembra aver perso sé stessa.
L’essere è in fondo un essere solo e mancante, il pudore difende la verità senza esporre questa miseria, buffa e goffa, che riduce l’uomo a qualcosa di insignificante rispetto al mondo. Poter mentire o dare un nome a ciò che non è pensabile e resta, quale godimento al di là del principio di piacere, riuscire a pensare che non tutto sia simbolico, ad immaginare persino il momento in cui si è assenti e non si può più parlare, ammettere che non si può tornare più indietro del linguaggio, e sentire in tutto questo la tensione e il limite, fa del pudore la metà della verità che non si può dire (L. Naveau, 2009-2010).[7] È una verità senza parole, dunque, la stessa che viene rincorsa nelle relazioni profonde, quando c’è l’aspirazione a “dirsi tutto”, ma è un pregiudizio, un’illusione che può portare a dolore e incomprensione. Non ci si può dire tutto, ma si può imparare a dire meglio ciò che resta e già sarebbe una bene-dizione (J. Lacan, 1959-1960)[8]. Il pudore, dunque, condanna la trasparenza a tutti i costi; è una barriera sottile in fondo, giusto un velo (J. Lacan, 1956-1957)[9], che è facile infrangere nella pratica quotidiana; è una forma di orgoglio che trova il suo valore solo nella relazione perché chiede di non essere ridotti a puro oggetto inanimato – si dice che si muore di vergogna, è accaduto davvero a Paul Grappe: una notte dell’estate del 1928, un colpo di pistola inferto dalla moglie, compagna e complice di tutte le sue iniziative, che nel buio della violenza colpisce quello che le appare come un velluto nero, nella sua unica macchia bianca, la fronte. Louise non sconterà nemmeno un giorno di carcere.

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[1] F. Virgili e D. Voldman (2011), La garçonne e l’assassino. Storia di Louise e di Paul, disertore travestito, nella Parigi degli anni folli, tr. it., Viella, 2016.
[2] F. Lelièvre (2010), “Pour conclure. La honte, tramatisme ou sens moral?”, Dialogue, 190(4), pp. 131-133.
[3] F. Duparc (2003), “La rage, la honte et la culpabilité (aux origines du malaise dans la culture), Revue Française de psychanalyse, 67(5), pp. 1757-1769.
[4] A. Ciccone e A. Ferrant (2010), “Indices de honte et dispositif psychothérapeutique”, Dialogue, 190(4), pp. 41-53.
M. Selz (2012), “Comment me cacher?”, Champ psy, 62(2), pp. 47-59.
J. Chevallier (2012), “Histoire de la honte en dermatologie”, Champ psy, 62(2), pp. 31-45.
[5] J. Lacan (1962-1963), L’angoscia. Seminario X, tr. it., Pubblicazione fuori commercio, documento interno alla Associazione Freudiana Internazionale e destinata ai suoi membri.
[6] S. Freud (1913), “Prefazione”, in J.G. Bourke (1913), Escrementi e civiltà. Antropologia del rituale scatologico, tr. it., La Sfinge, 1971.
[7] L. Naveau (2009-2010), “Il velo del pudore, i sembianti e il reale”, Bulletin Electronique du Comité d’Action de l’École-Association Mondiale de Psychanalyse-Version 2009-2010, 8 – Avril 2010 – consultato all’indirizzo internet http://2010.congresoamp.com/it/textos/papers/papers_08_it.pdf
[8] J. Lacan (1959-1960), L’etica della psicoanalisi. Seminario VII, tr. it., Einaudi.
[9] J. Lacan (1956-1957), La relazione d’oggetto. Seminario IV, tr. it., Einaudi.


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