01/04/2017

Lo Stranamore della medicina


di Fabrizio Gambini

La medicina ama il proprio sapere. In particolare ama le pratiche di cure precise e protocollari che si accoppiano a diagnosi certe. Accoppiamento: copula tra un sapere diagnostico e un saper fare regolamentato. Diciamo che è questa la felice attività sessuale alla quale la medicina aspira, il suo amore, la sua meta e il suo godimento.
 
La parola “sesso” però deriva dal latino sexus che ha un’origine incerta, e per questo in sé interessante. Il termine è stato fatto derivare dal greco ték-os (nato, procreato) dove la T si sarebbe trasformata in S perdendo così il riferimento alla radice tak (fabbricare) che si ritrova in latino, e poi italiano, nel verbo “tessere”. Una seconda ipotesi fa derivare il termine dal greco èxis (in seguito sexis) che è “stato” o “condizione”. Infine la parola potrebbe derivare dal latino secare, che è tagliare, separare. Nelle tre possibili etimologie si trova insomma il sesso come un dato di fatto, un incontrovertibile che però taglia e cuce, che separa e che tesse, e che fabbrica qualcosa.
 
Per questo, diversamente che per la medicina, per l’essere umano l’iscrizione sessuale non è semplice. Già accedere a una condizione, a uno stato di fatto, significa evidentemente, escluderne altri. Non è facile da accettare. Perché come mamma no? E, se come mamma, che fine fa papà? Meglio forse non scegliere? Restare in un’infinita gamma di sfumature di colore che va dal rosa al celeste e, eventualmente a seconda dei momenti, situarsi nella sfumatura che più aggrada? E poi, una volta fatta una scelta, una qualsiasi scelta, cosa ce ne facciamo di questo tessere e slegare, di questo cuci e scuci che non ci consente alcuna copula, alcun rapporto con l’oggetto?
 
La clinica psicoanalitica ci dice che è questo che succede, da sempre.
 
Oggi però la medicina ha fatto progressi. Chiama questa difficoltà “disforia” ossia malsopportazione. L’idea sarebbe quella di intercettare la disforia in età adolescenziale e trattare i soggetti sia con un approccio psicologico e medico. In particolare quest’ultimo consiste nel blocco dell’evoluzione puberale, ovviamente solo nei casi compresi nelle linee guida internazionali. Sì, avete capito bene: “blocco dell’evoluzione puberale”. Ma a cosa serve, vi chiederete. Ebbene, il fine dichiarato è quello di allungare la finestra di ascolto, senza che il bambino (under 12) debba subire la sofferenza di un corpo che si sviluppa in una direzione non desiderata. Non funziona per tutti, infatti dei bambini che mostrano comportamenti cross-gender, solo il 15 per cento li mostrerà ancora in età adolescenziale. Questo perché l’identità sessuale dei bambini è fluida e in divenire. Quando invece la disforia di genere persiste in età adolescenziale raramente poi desiste. Per questo, si sostiene in centri universitari più che accreditati, prescrivere i bloccanti della pubertà significa dare all’adolescente più tempo per riflettere sulla sua identità sessuale e di genere.
 
In fondo è per amore che il Dr Frankenstein aveva creato il “suo” mostro. Qui l’amore per la propria possibilità d’intervenire modificando il mondo sembra piuttosto tendere alla creazione di Peter Pan.
 
Chissà che non si possa trovare un limite all’amore della medicina per il suo proprio corpo fino a lasciare che il corpo dell’altro, nel caso quello di un bambino o di una bambina, non trovi da sé, con l’aiuto di tutte le parole utili e necessarie, la possibilità di inscriversi in questa scelta impossibile: sarò uomo o sarò donna? E poi, sarò stato bambino o sarò stata bambina? In fondo è di una questione di linguaggio che si tratta.

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