01/03/2015

Lacan politico


di Fabrizio Gambini

Esiste una politica della psicoanalisi? In particolare, esiste una politica della psicoanalisi lacaniana?
Certamente è possibile un uso politico della psicoanalisi. Questo significa che ogni psicoanalista non può evitare di essere libero di torcere la propria pratica e il proprio pensiero ai fini di un uso politico di quella pratica e di quel pensiero. Questo significa anche che la declinazione fattuale della pratica e delle opinioni individuali circa la psicoanalisi vela e nasconde almeno in parte la questione se esista una politica della psicoanalisi lacaniana. Qui si tratta infatti di stabilire se le nozioni, le acquisizioni, i matemi, i significanti imposti dal riferimento al corpo del pensiero di Lacan, determinino di per sé una posizione che ha conseguenze politiche.
Andiamo con ordine, per punti.
 
  1. Non si può evitare di essere liberi di torcere la propria pratica e il proprio pensiero ai fini di un uso politico. È una proposizione che contiene una specie di ossimoro logico: essere obbligati ad essere liberi. Il senso di questo ossimoro è che non ci si può esimere dalla valenza politica del proprio pensiero, prima di tutto perché dal momento in cui il pensiero si fa parola, parlata o scritta che sia, produce degli effetti nel sociale che sono politica. Inoltre questi effetti sono percepiti, considerati, reperiti e a loro viene attribuito necessariamente un senso, che è politica. Capita ad esempio che un’annotazione di Lacan sul declino sociale dell’imago paterna,[1] dia la stura ad una serie di osservazioni sulla supposta fine dell’idea di Padre che assumono talvolta il colore di un appello al buon tempo andato; tempo di valori solidi, tempo di certezze, di ordine e di riconoscimento delle differenze. E, forse non è inutile ricordarlo, tempo anche di guerre religiose, di monarchie assolutiste, di capitalismo e di colonialismo. Capita anche che, in nome del riconoscimento di funzioni che non sono radicate nel biologico, bensì nella topologia del nodo stretto tra Reale, Simbolico e Immaginario, ci si possa esprimere a favore dell’adozione da parte di coppie di fatto, eventualmente anche omosessuali, o a favore dell’adozione monoparentale, piuttosto che della procreazione assistita. In questa sede ribadisco il punto fondamentale: in entrambi i casi non si tratta di una politica della psicoanalisi, si tratta dell’impossibilità degli psicoanalisti di non essere politici.
  2. Esiste un di per sé della politica? A mio avviso è questa la questione soggiacente alla questione se il corpo del pensiero di Lacan determini, di per sé, una posizione non priva di conseguenze politiche. Se ci riferiamo all’esperienza degli ultimi due secoli sembrerebbe che il connubio tra scienza e politica non abbia dato grandi frutti, o meglio, frutti e grandi lo erano ma, diciamo così, non particolarmente appetitosi. In particolare il materialismo storico, e che indubbiamente si voleva scientifico, di Marx ed Engels non ha dato una gran prova di sé. Come dire che l’idea di una processualità strutturale che si fa, appunto, di per sé, e rispetto alla quale si tratterebbe di saperci fare come un barcaiolo nella corrente di un fiume, si è rivelata un’idea tutto sommato romantica e, direi, figlia “naturale” quanto non riconosciuta, dell’idealismo hegeliano. È in fondo questa l’idea del “Che fare?” di leniniana memoria anche se, per quanto mi riguarda, preferisco il “Che fare?” di Nicolaj G. Černyševskij, intriso, com’è, della carne, del sangue e degli umori di una gioventù in marcia verso la propria speranza. L’imbarazzante è che questa idea non è poi così lontana dal “saperci fare con l’inconscio” di cui parla Lacan. In ogni caso, se qualcosa marca il discorso della psicoanalisi rispetto alla sua possibilità di essere una politica, è a questo livello che bisogna cercarlo.
 
Allora, se le cose stanno come io sospetto che stiano, ciò che stiamo cercando di capire e, in qualche modo di valutare, è se l’idea lacaniana di una logica come scienza del Reale, possa avvicinarci in qualche modo ad un’idea di verità che sia capace di indirizzare la politica verso un orizzonte non così disperatamente illusorio e utopico come si è rivelato l’orizzonte novecentesco, illuminato sì dai bagliori del sole, ritenuto nascente, dell’avvenire, solo che quella che pensavamo fosse un’alba, era invece già un tramonto. Ma qual è l’idea di verità che può sostenersi a partire dal pensiero di Lacan che in fondo, per quel che riguarda la psicoanalisi, non ci lascia scelta se non tra la follia e la stupidità?[2]
 
Una volta caduta l’idea del bello come chiave d’accesso al vero, siamo in effetti rimasti un po’ in brache di tela e, forse, non è inutile osservare a questo proposito che Lacan non era un filosofo e che in fondo, che la filosofia potesse restare a bocca aperta (bouché) tra una scienza che, fregandosene di tutto, fa male all’anima[3] e una stupidità che quando non è tale è follia, non era un suo problema. Se posso azzardare qualcosa di indubbiamente personale a questo proposito, penso che Lacan pensasse di sé quel che pensava di Freud, ovvero “che non aveva niente di trascendente: era un modesto medico che, mio Dio, faceva quel che poteva per quello che si chiama guarire, niente di più.”[4]
 
In quanto medico, Lacan aveva indubbiamente a che fare con la scienza, ma lei, la scienza del Reale, in quanto tale, gli si è rivelata necessariamente e disperatamente filolitica: produttrice di lisi, di scioglimento e di dissoluzione, senza fine, arrestandosi solo sul reale della lettera. Ma un’analisi non è solo lisi e, in ogni caso, non giunge mai alla sua fine, che sarebbe propriamente afasica. Si può trovare qui, in questa sua dimensione,in qualche modo negativa, del “non essere solo”, la cifra di un “saperci fare” che forse è altra cosa dal “Che fare?” e che, in ogni caso, sembra avere un impatto decisamente altro sulla determinazione di quella che possiamo chiamare una politica?
 
Avremo modo di discuterne, e sono molto felice di questo, assieme a Bruno Moroncini e a Giovanni Leghissa nell’occasione della presentazione del libro di Bruno a Torino, discussione alla quale siete tutti calorosamente invitati a partecipare.
 
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[1] Jacques Lacan, Les complexes familiaux, Navarin, Paris 1984, p. 72
[2] Jacques Lacan, L’insu que sait de l’une-bevue s’aile à mourre, Seminario 1976 – 1977, edizione fuori commercio dell’Associazione Lacaniana Internazionale, lezione IV (11 gennaio 1977), p. 54.
[3] Bruno Moroncini, cit. p. 46
[4] Jacques Lacan, cit. p. 48.


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