01/12/2017

La vergogna e il silenzio (sguardi dall'altro mondo)


di Graciela Peña Alfaro

Nel Paradiso, dice Freud alludendo al testo biblico della Genesi, gli uomini sono nudi e non si vergognano gli uni di fronte all’altro.  La vergogna si origina quando avviene l’espulsione dall’Eden e cominciano la vita sessuale e il lavoro della civiltà.  Questo sguardo retrospettivo di un periodo paradisiaco che non conosce la vergogna, dice Freud, non è altro che la fantasia collettiva dell’infanzia del singolo.
 
E’ molto significativo che nella Bibbia, libro sacro delle religioni ebraica e cristiana, la vergogna emerga come il primo affetto che l’uomo prova quando diventa umano, vale a dire, quando accedendo al sapere, accede al contempo alla perdita e alla mancanza.  Esiste in questo punto, una totale convergenza con la prospettiva di Lacan. 
 
Effettivamente, sebbene Lacan non conceda alla vergogna la stessa centralità che riserva ad altri affetti come la angoscia, riconosce l’intima indissolubilità di questo affetto con l’essere, con l’essere umano.  Parlando della vergogna –honte, in francese- compone il neologismo “hontologie” nel quale unisce la honte –la vergogna, appunto- all’ontologie (ontologia).
 
A differenza dell’angoscia, la vergogna compare chiaramente come un effetto della cultura (i bambini molto piccoli non si vergognano).  Benché molto di rado si ammetta pubblicamente di provare vergogna, questo affetto compare molto chiaramente nella clinica.  Compare, però, un po’ en passant, rivelando uno dei tratti della vergogna: la vergogna di vergognarsi. 
 
Secondo il Dizionario Italiano Savatini, la vergogna è un sentimento di colpa o di umiliazione che si prova per un atto o un comportamento sentito come disonesto, sconveniente, indecente.  Designa anche il senso di impaccio o di ritrosia dovuto alla timidezza così come il disonore e l’infamia.  Queste diverse accezioni rivelano il carattere intersoggettivo della vergogna, la sua collocazione fra lo psichico e ciò che è sociale.
 
Nell’opera di Freud la vergogna compare chiaramente come una manifestazione che attiene alla sfera narcisistica.  Ha a che fare con lo sguardo dell’altro e sorge dall’incompletezza immaginaria che costituisce l’oggetto stesso dell’interesse dell’amore narcisistico.  Nello sguardo dello sguardo dell’altro (guardo che l’altro mi guarda) compare implacabilmente la distanza fra l’ideale e l’immagine di sé, un’immagine insufficiente e imperfetta
 
Lacan, con la sua brillante disamina, va ancora oltre.  Mette in luce che al cospetto dell’Altro, nello sguardo dell’Altro –che guarda anche senza vedere- ci si vergogna non tanto di un’azione compiuta ma di ciò che si è.  Emerge dal godimento –che non è affatto il piacere- dei propri sintomi; emerge dall’orrore di trascinare, giorno dopo giorno, le conseguenze di un meccanismo –il proprio sintomo, appunto- apparentemente inarrestabile, che procura malessere e immobilismo.
 
E’ questa vergogna ciò che, che alla stessa stregua del pudore -non a caso in tedesco è la stessa parola Scham, che designa la vergogna e il pudore- induce a coprire, a velare.  Nella vergogna il primo velo lo offre il silenzio.  Ciò che suscita vergogna viene taciuto per salvaguardare la propria immagine davanti agli altri.  Molte volte si tace perché si crede di essere gli unici al mondo ad essere caduti così in basso; si crede che ciò che non si riesce a raggiungere risponde a una estrema indigenza, a una povertà del proprio essere che non può che suscitare vergogna.
 
 
 
Due esempi a questo riguardo possono essere significativi: si collocano entrambi nell’ambito della violenza.  Uno riguarda la violenza su una donna; l’altro, riguarda la violenza su un giovane, talvolta giovanissimo, maschio o femmina che è oggetto della violenza degli altri –bullismo o ciber bullismo-.
Nel caso della violenza su una donna da parte del partner o dall’ex partner, è molto comune che costei provi vergogna di trovarvisi.  I motivi sono molteplici ma, schematicamente, si possono collocare su due versanti: da una parte, riguardano una ferita narcisistica, vale a dire, la difficoltà a riconoscere che l’uomo che è stato scelto, talora contro il parere degli altri, è un uomo che picchia e distrugge, un uomo “sbagliato”, “difettoso”. Dall’altra, ci si vergogna di non riuscire a porre fine a quella situazione, identificando la causa nella propria incapacità, nelle proprie carenze, nei propri limiti. 
 
E’ chiaro che la dinamica della violenza su una donna è oltremodo complessa e questa schematizzazione ne contempla solo qualcuno.  Tuttavia, consente di evidenziare che i fallimenti nel rapporto con l’Altro –l’Altro dell’altro sesso- molto frequentemente costituiscono per una donna il segno inequivocabile delle proprie falle, della propria incompiutezza, suscitandole vergogna.  E’ questa vergogna che conduce al silenzio, all’isolamento, al malessere.
 
Nel caso del giovane che subisce violenza dagli altri –bullismo o ciber bullismo- la difficoltà a porre fine a una grave violenza gruppale è, oltre alla paura, la vergogna e l’umiliazione.  Ci si vergogna di svelare ad altri che si è stati umiliati, sbeffati, esposti al pubblico ludibrio; ci si vergogna di essere stati ritenuti dagli altri un oggetto di scarto, da buttare, un oggetto di cui godere sadicamente.  Ci si vergogna di non aver saputo o potuto difendersi.
 
Nel caso del ciber bullismo, l’effetto può essere ancora più catastrofico.  Si viene esposti nel circo mediatico come una merce che si può calpestare e poi buttare perché priva di valore.  L’impossibilità di troncare questo meccanismo può provocare un’incertezza narcisistica angosciante che, come sappiamo, può condurre persino al suicidio. 
 
La vergogna è un affetto composito e frastagliato.  Due elementi, però, possono essere messi in risalto: da una parte, l’intimo e indissolubile legame fra lo sguardo e la vergogna; da un’altra, l’inscindibile legame fra la vergogna e il proprio valore fallico.  La vergogna affiora quando nello sguardo dell’altro o dell’Altro si appare privi del proprio valore fallico.  In quei momenti sembra che non rimanga altro che coprirsi pudicamente con il velo del silenzio o con il velo, ancora più scuro, della morte.
 
Per concludere, lascio volentieri la parola al matematico e filosofo Blaise Pascal: “Non c’è vergogna se non nel non averne”.

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