01/01/2019

La lingua e la frontiera. Doppia cultura e multilinguismo


di Nazir Hamad

Traduzione di Graciela Peña Alfaro


L’eccellente libro di Tzevetan Todorov, Nous e les autres, mi ha molto aiutato a formular la mia ipotesi di lavoro in questo saggio.  Todorovov analizza la letteratura del XVIII e XIX secolo per mostrare il posto fondamentale che i romanzi di viaggio hanno rappresentato per numerosi autori.  Gli eroi dei loro romanzi vanno alla ricerca dell’altro, quello in teoria diverso, per conoscere e studiare i suoi costumi, come un modo per esaminare la propria immagine in uno specchio.
L’altro è il buon selvaggio, come anche i membri di una civiltà situata, secondo loro, agli antipodi della propria.  C’è bisogno di qualcuno ritenuto diverso che si presti all’esame affinché possano riscoprire la propria immagine grazie alle differenze e per imparare a relativizzare la nozione che hanno della civiltà di appartenenza.
Mi limito qui a segnalare che, se mi riferisco al titolo di Todorov, Nous et les autres, è per scriverlo a modo mio: “Noi altri”, seguendo Lacan quando riprende la formulazione di Descartes “Penso, dunque sono” per scriverla: “Penso laddove non sono”, introducendo l’inconscio laddove Descartes collocava in primo luogo la coscienza.
Se mi soffermo su quel concetto che Todorov sviluppa per situare il Noi in un rapporto dialettico con gli Altri supposti differenti, è per dire che la differenza è tanto più problematica quanto più è minima.  Poiché nella misura in cui si dispone di minori criteri oggettivi per evidenziare la differenza con l’altro, più ci si riferisce alla soggettività storica o al narcisismo della piccole differenze per tracciare delle frontiere che si vorrebbero invalicabili. 
Ogni paese, ogni popolo ha il suo altro, non sempre differente, ma che ha come funzione quella di essere lo specchio delle proiezioni di ognuno.  E’ il caso del belga per il francese, per esempio, o dell’olandese per il belga.  Ognuno di noi ha il suo altro supposto diverso e deriso ma che non diventa drammatico tranne che nei casi di crisi. 
L’altro non sono io, ma lo è nella misura in cui il suo modo di essere, per ciò che io gli attribuisco, mi offre un gruppo di appartenenza e una continuità.  Il gruppo designa le differenze reali o supposte dell’altro e in questo modo colloca se stesso.  Conferisce esistenza a ciò che rigetta, a ciò che designa come altro per ritrovare se stesso.
Chi è dunque quest’altro?
E’ in primo luogo un’immagine, la propria.  L’esempio degli animali che lottano contro la propria immagine nello specchio, illustra bene la mia tesi.  Ma stiamo ben attenti a non ridere delle sciocchezze dei nostri amici animali perché il bambino umano crede anche lui alla realtà tangibile della sua immagine e cerca quest’altro dietro lo specchio.  A quest’età, per esempio, le sue reazioni non sono diverse da quelle di una scimmia. 
E’ solo grazie alla conferma dell’adulto che il bambino umano riconosce l’altro nello specchio come la sua propria immagine.  E questo riconoscimento costituisce per lui un processo di identificazione che diventa la matrice di tutte le altre identificazioni e la conquista progressiva della sua identità di soggetto.
E’ in ciò che risiede uno dei drammi primordiali dell’essere umano.  Si identifica con un doppio di se stesso, con la sua immagine vissuta come estranea prima di integrarla e anticipare l’unità del suo corpo. Ed ecco perché l’essere umano è sempre preso in questo dilemma che consiste nell’essere alienato dall’immagine dell’altro, luogo fondamentale che lo fa esistere ma di un’esistenza critica.  Troppo lontano dell’altro, il soggetto umano è annientato; troppo vicino, annullato.
La speranza dell’uomo proviene dal suo essere dotato di linguaggio.  Contrariamente all’animale, l’uomo abita doppiamente il suo corpo.  Il suo corpo è innanzitutto un insieme di immagini inconsce prima che il suo schema corporeo sia neurologicamente unificato.  E’ questo scarto fra lo schema corporeo e l’immagine inconscia del corpo che fa dell’esperienza dello specchio una prova singolare per l’essere parlante.  E’ singolare nella misura in cui quest’identificazione con l’immagine instaura per lui un ideale per il suo io, o io ideale.  Questo ideale resta lì, latente, capace di prendere una forma megalomaniaca nel corso della quale l’uomo ha una sola preoccupazione, curare la sua immagine per corrispondere a ciò che si attende da lui. 
E’ vero per ciò che concerne gli uomini politici, le stars   e tutti i tipi di maestri.  Ed è vero anche per ciò che concerne l’immagine che i gruppi umani si fanno di loro stessi in opposizione agli altri supposti diversi, persino inferiori. 
Probabilmente occorre credere che partire rappresenti in qualche misura questa prova soggettiva, queste peregrinazioni nel corso delle quali ognuno va giusto all’estremità del suo essere.  E’ il passaggio necessario che porta verso la scoperta di se stesso in una pelle nuova che costituisce la lingua e la cultura dell’altro. 
 
Tratto da Nazir Hamad, La langue et la frontière, Denoël, Paris, 2004. 
Traduzione a cura di Graciela Peña Alfaro


Cliccare sul nome sottostante per scaricare il file


  • Share:

© ASSOCIAZIONE LACANIANA INTERNAZIONALE TORINO c.f. 05832920010

Questo sito utilizza solo cookie tecnici.
Se decidi di continuare la navigazione accetti il loro uso. Leggi la Privacy e cookies