01/01/2020

L'importanza di nominare ponti fra politica e psicoanalisi


di Omar Guerrero (traduzione di Graciela Peña Alfaro)

Da diversi anni ormai, la stampa ci racconta la fuga di uomini, di donne e di bambini che rischiano la loro vita, abbandonando i loro paesi in guerra e attraversano ostacoli geografici e politici alla ricerca di un rifugio.
Alcuni media hanno inviato i loro corrispondenti sui territori in conflitto, oppure sui luoghi di passaggio per descrivere le difficoltà, o persino i pericoli di un tale spostamento.  Altri hanno messo l’accento sull’accoglienza riservata a queste persone nei paesi che, volenti o nolenti, li hanno accolti.
La problematica è stata rapidamente ripresa dalla sfera politica, che si è occupata del fenomeno in termini essenzialmente amministrativi; è stata analizzata altresì da sociologi e da altri intellettuali che hanno cercano di comprendere i fatti.
Ad ogni tappa di ciò che è diventato un problema europeo, il malessere è perdurato e ha giustificato chiamare in causa la politica e la psicoanalisi per avere alcune piste di lettura.  Si potrebbe dire che il problema compare nel modo seguente: sembrerebbe che non si sappia bene come nominare quelle persone.  Si tratta semplicemente di persone? Di migranti? Di rifugiati? Di stranieri?
E dunque, conseguenza inevitabile, non sappiamo in che modo dobbiamo accoglierli.  Come capirli? Cosa vuol dire nominare?
Nominare l’altro è un atto iniziale che ci permette di identificare qualcuno o qualcosa.  Di conseguenza, quest’atto permette al soggetto di essere identificato dagli altri.  E’ portatore di un significante che lo nomina, che lo differenzia da altri e che al contempo lo inscrive in un gruppo. 
Ciò vuol dire che essere identificato (dal latino idem, lo stesso) in quanto uomo, appartenente alla classe degli uomini, la stessa classe di altri uomini, per esempio. Potremmo evidentemente evocare altri significanti.  Si tratta di un’operazione simbolica che annoda il singolare al collettivo: il bimbo appena nato è inserito socialmente, è riconosciuto dalla società come un bambino o una bambina e ciò gli donerà un’identità (dal latino idem).
Questo riconoscimento dall’altro indica al soggetto il luogo che occuperà nella società, vale a dire, il modo nel quale entrerà in relazione con altri, ciò che si attende da lui, ciò che gli è vietato, secondo il contesto nel quale si trovi.  Questo codice, eminentemente simbolico, è presente in tutti i gruppi umani: la famiglia, la religione, l’esercito, l’impresa…vi si occupa un posto e questo posto ha un nome, ogni volta.
Quando Lacan utilizzava il termine di “parlessere”, lasciava intendere che noi esistiamo in quanto esseri nel linguaggio.  E’ una lettura della definizione lacaniana del significante differente da quella che Saussure proponeva per la linguistica.  Per Lacan un significante rappresenta un soggetto per un altro significante.  Ciò vuol dire che un soggetto sarà rappresentato dal significante “padre” per rivolgersi al significante “figlio” che, a sua volta, rappresenta a un altro soggetto.    
Se continuiamo con l’esempio di “padre”, vediamo che il solo fatto di assegnare questa nominazione, determina a chi si rivolge: colui che parla in quanto “padre” è investito immediatamente di una funzione, e questa lo autorizzerà a far uso di un certo tipo di parola.  Un “padre” potrà facilmente imporre all’altro un ordine, un avvertimento, una indicazione, e potrà legittimamente usare l’imperativo per puntualizzare, per vietare.  Quest’altro non può che essere un figlio in rapporto a un padre.
Avviene proprio l’inverso se qualcuno s’inscrive come “figlio”.  La clinica con i bambini al Centro Primo Levi ci mostra che questo circuito non è sempre evidente.  Ciò che determina che tanti bambini siano portati al Centro è proprio il corto-circuito, la confusione di registri come una conseguenza post-traumatica: come si parla in queste famiglie che fuggono dalla violenza? Che parole utilizzano?  Chi cercano di rassicurare?
Dopo queste osservazioni, sotto forma di promemoria di alcuni principi basilari, come articolare la crisi dei “migranti”?  Tanto più che rischia di perdurare.  Possiamo interrogarci a partire dall’imbarazzo della stampa e della classe politica e riflettere sulle sfide e sulle conseguenze delle parole che utilizziamo per rivolgerci all’altro.
La stampa ha parlato innanzitutto di “rifugiati” che fuggivano dalle zone di conflitto.  Si trattava nella maggioranza di siriani che erano scappati dalla Siria e che avevano trovato rifugio in altri paesi come la Libia. 
Ciò che ci interessa è la parola “rifugiato”.  Se noi chiamiamo queste persone con questa denominazione, ciò li inscrive nelle convenzioni internazionali che disciplinano il tipo di accoglienza che i paesi firmatari sono tenuti a riservare ai “rifugiati”.
Ora, i dirigenti dei paesi di accoglienza hanno temuto “un eccessivo flusso” di rifugiati ai quali avrebbero dovuto aprire le porte.  Nel frattempo le frontiere, che normalmente funzionano come luogo di passaggio, si sono trasformati in muri, malgrado le convenzioni.  
Correggendo questa denominazione, si è iniziato a parlare di “migranti”.  Questo appellativo sposta il quadro: questo significante s’inscrive in un altro discorso che non riguarda la Convenzione di Ginevra che protegge chi è vittima di violenza. 
Quest’altro discorso di semplici migranti, concerne una geografia umana che non risponde assolutamente agli stessi obblighi.  A partire dal momento che si parla di migrazione, si metterà l’accento sulla posta in gioco finanziaria o sociale, ma non più sulla guerra o la violenza.  Si è in un'altra logica.
In questo braccio di ferro ideologico, il potere politico è riuscito a imporre i suoi significanti non per arrestare l’emorragia ma per applicare un altro trattamento.  Vale a dire, si affronta il problema come se si trattasse di gestire le risorse umane in una impresa dimenticando troppo in fretta che si tratta di altre questioni, umane precisamente, che sono state considerate meglio in altri momenti della nostra storia.
Ciò che ci interessa è sottolineare questa sostituzione di significanti saggiamente orchestrato e gli effetti che produce.  Perché la clinica e la storia ci insegnano che i dirigenti hanno sempre utilizzato quest’operazione di nominazione per perpetuare il loro potere; rinominare un partito politico, gruppi di territori (come le banlieues) con un altro nome, dare un nome ben scelto alle strade e alle piazze, ecc.  Ma a volte questo potere è estremo e le conseguenze si riflettono negativamente anche sulle modalità mediante le quali le persone designano questo fenomeno. 
Un centro di cura come il Centro Primo Levi è ugualmente interessato alla nominazione e ai suoi effetti.  A partire dalle peculiarità delle persone prese in carico, il nostro centro riceve delle “vittime”, dei “traumatizzati”.  Ora, è essenziale per noi compiere quel passo che ci permetta di avere degli effetti terapeutici e insistere sul fatto che noi riceviamo dei “pazienti”, vale a dire, persone che necessitano di cura e che hanno una domanda in tal senso. 
In quale discorso siamo quando chiamiamo quelle persone “pazienti"?
La nostra prassi istituzionale, dopo ormai vent’anni di lavoro, è di considerare la psicoanalisi non solo come una pratica terapeutica ma come un’etica ed è in quel discorso che noi siamo presi così come i nostri pazienti. 
Questo discorso comporta che il clinico, così come tutti i professionisti in contatto con i pazienti, siano in una posizione di ascolto, di accoglienza dell’eventuale domanda del paziente.  Questo ascolto non è nel registro della compassione o, peggio, della pietà.  La psicoanalisi può generare diffidenza perché non lavora con l’empatia –può persino essere antipatica!
Questo discorso presuppone di accogliere la domanda del paziente, di invitarlo a formularla, introducendo delle punteggiature che rendano udibile ciò che coscientemente non lo era, il fatto di responsabilizzare il paziente affinché possa occupare il posto di soggetto dal quale era stato definitivamente cacciato.
Lasciando il nostro centro di cura, alla fine del suo percorso, i nostri pazienti potranno nominare se stessi diversamente; scommettiamo sulla possibilità ritrovata che avranno di utilizzare altri significanti per riprendere una vita, dopo tutto.
 
Tratto da Omar Guerrero, “L’importance di nommer, Passerelles entre politique et psychanalyse”, La Revue Lacanienne no. 17, (2016), pp. 165-169.

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