01/05/2017

L'identità, la lezione dell'adozione


di Nazir Hamad

L’esperienza clinica con i bambini adottati privi della loro storia d’origine, mi fornisce un esempio che io direi sperimentale di ciò che l’uomo cerca come riferimento per costruire un’appartenenza.  Questi uomini e queste donne sono tormentati dalla ricerca della loro origine e vogliono sapere tutto per colmare ciò che percepiscono come un buco nelle loro storie.  Questa richiesta, che ha come obbiettivo rendere la loro storia raccontabile, mi sembra legittima, eppure può rendere ad alcuni la vita impossibile. 
Avendo ascoltato durante anni questi uomini e queste donne ho potuto imparare che sono al meno quattro i riferimenti essenziale che vengono inscritti e che conferiscono una singolarità alla propria vita: il fenotipo, compresi i tratti di somiglianza con qualcuno; una data, per esempio, la data di nascita; un luogo, ovvero, una comunità che riconosce qualcuno come uno dei suoi membri; e un indirizzo, il che vuol dire una casa e un nome.
Riflettendoci, quei quattro riferimenti sono meno banali di ciò che può sembrare a prima vista.  Il fatto di metterli insieme rappresenta per questi uomini e queste donne una liberazione di ciò che io chiamo la cattura dell’origine.  Talvolta è sufficiente che manchi uno di quegli indici, oppure sia particolarmente inatteso per scatenare delle reazioni anche esse inattese.  Mi ricordo ancora di quella prima giovane donna che è crollata quando ha saputo che i suoi genitori abitavano in un rimorchio di un camion abbandonato all’esterno di un paese.  Ciò ha determinato in lei un intenso shock perché ha avuto l’impressione che loro non appartenessero alla specie umana.  “Non si ha il diritto di cadere così in basso”, ripeteva con dolore.  Perché si era fissata in quel dettaglio, considerando che la storia dei suoi genitori era particolarmente drammatica?
La risposta mi è stata inspirata a Siena dal quadro “Gli effetti del buon governo” di Ambrogio Lorenzetti.  Questo quadro si legge da sinistra a destra.  Comincia dalla figura della Saggezza che tiene in mano la Bibbia.  Da qui scende una corda che passa alla figura della Giustizia.  In seguito, la corda passa nelle mani della Concordia, presentata con una pialla sopra le ginocchia destinata a appianare le dispute.  Dopo, la stessa corda arriva nelle mani dei ventiquattro cittadini che simboleggiano il governo di Siena in quell’epoca.  Infine, la corda giunge nelle mani di un vecchio vestito in bianco e nero, i colori della città.  Ai loro piedi si trovano i gemelli e la lupa, che ricordano l’origine romana della città. 
Ecco l’ideale di un dispositivo solido che salda il gruppo e assicura ad ognuno dei suoi membri un sentimento di appartenenza.  La corda è tenuta dai due capi da ciò che simboleggia l’origine.  Quest’origine è al contempo biologica e spirituale.  Fra le due, il cittadino ha un capo che rappresenta un legame, diciamo un legame sociale.  Ed ecco perché questa giovane donna è scioccata: i suoi genitori sono esclusi da questo dispositivo.  Loro non tengono in mano un capo di questa corda.  La loro esclusione non è più sociale, sono esclusi dalla loro umanità.
Per costruire queste fictions, ognuno ha bisogno di alcuni riferimenti, come abbiamo visto che avviene nel percorso dei giovani adottivi.  Una montatura di fiction che ha come obbiettivo mantenere un rapporto con la verità.  La verità, ci dice Lacan, ha la struttura di una fiction.
Tuttavia, talvolta, c’è qualcosa che non va.  Capita che dei giovani adottati o dei giovani che sono immigrati rimangano in una ricerca disperata malgrado la gran quantità di informazioni che ottengono sulla loro storia.  Fanno come se la vita che vivono non fosse la vera vita e che i loro destini di uomo e donna fossero altrove, in ogni caso non fra i ventiquattro cittadini che si trovano nel quadro e che sono invitati a prendere posto.  Hanno la tendenza, per rimanere nella metafora del quadro, a interessarsi ai due capi della corda, considerando che sono stati privati di qualcosa che è da scoprire dal lato dell’origine biologica della madre generatrice, per esempio, o dall’origine culturale che resta per loro circondata da un alone sacro.
Si potrebbe ribattere, e si avrebbe ragione, che è sufficiente privare a un gruppo della sua terra, della sua lingua o della sua cultura per renderli sacri.  E quando ciò avviene, questo processo costituisce la base sulla quale ognuno costruisce il suo mito individuale, mentre quello culturale risulta indebolito.  Ed è molto probabile che un individuo o un gruppo umano occulti il suo malessere soggettivo dietro un malessere reale.  In modo tale che si abbia sempre bisogno di quel malessere per rimanere al riparo della propria soggettività.     
Freud, nella sua ipotesi di Totem e tabù, illustra perfettamente questa costruzione di fiction con una dimensione spirituale da una parte e una dimensione biologica dall’altra e in mezzo la famosa corda tenuta dai ventiquattro, coloro che si costituiscono intorno alla morte del loro grande uomo.  Freud formula l’ipotesi di un atto originale strutturante e la necessità, in seguito, della sua riproduzione come qualcosa che viene a stabilire e rinforzare il legame sociale.  Ciò conduce Freud a introdurre altri due morti: quella di Gesù come fondatore di un gruppo specifico e quella del padre, come fondatore della soggettività dell’uomo in quanto soggetto. 
Le cose, però, non sono così semplici.  Quei tre tempi costitutivi di un soggetto umano nella sua cultura rimangono una visione dello spirito se sono letti come eventi cronologici.  Totem e tabù può essere concepibile come ipotesi solo sei tre tempi sono annodati senza alcun primato degli uni sugli altri.  E’ come quando si racconta una storia a un bambino.  Tutto incomincia da: “C’era una volta”.  Il bambino si accontenta.  Non vi chiede mai “quando”.  Sa inconsciamente che “C’era una volta” significa il tempo di vita e la narrazione che i vivi si raccontano.
Ciò mi porta a dire che quando si parla di identità, si è necessariamente di fronte a un impossibile.  Impossibile dire ciò che la costituisce per un soggetto o per un gruppo.  Si possono moltiplicare i riferimenti: lingua comune, religione, costumi e terra e ci si rende conto che si sta raccontando una storia, come si fa con i bambini.  La storia ci mostra che ogni volta che fissiamo l’identità nei riferimenti che si vogliono esclusivi e decisivi, si libera il mostro che è in noi e non si controlla più niente.  La razza pura, come è stato il caso in Germania prima della Seconda Guerra; la guerra delle lingue in Belgio; la guerra delle religioni nei Balcani, in Irlanda o in Medio Oriente o la guerra delle culture sono esempi eloquenti de la mostruosità identitaria. 
L’identità non è mai qualcosa di fisso.  L’identità nazionale è dinamica.  Non cessa di costruirsi a l’immagine de l’evoluzione del mondo che la circonda. 
 
Tratto da: “L’identité, la leçon de l’adoption”, IN La politique après Freud e Lacan, La Revue Lacanienne, n° 17, pp. 158-163.
 
Traduzione a cura di Graciela Peña Alfaro

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