01/07/2014

L'adozione e la storia dell'origine


di Nazir Hamad

Lavorando con le persone che sono state adottate, ho potuto cogliere degli elementi clinici molto interessanti per me e per tutti coloro che lavorano nel campo dell'adozione.
 
La prima constatazione è che le famiglie adottive raccontano normalmente la verità dell'adozione al bambino. È raro trovare bambini che non conoscono la loro storia o che non sanno che sono stati adottati. Come fare la distinzione tra il dire a un bambino la verità sulla sua adozione e il fare erigere questa verità come elemento identitario?
 
Ecco dei piccoli esempi che illustrano quanto sto dicendo. Dei genitori adottivi mi chiedono: abbiamo adottato un bambino. Quanto tempo dobbiamo tenerlo con noi prima di mandarlo in vacanza in colonia? Secondo lei, lo dobbiamo tenere un anno, due anni? Quando gli chiedo: per fare cosa? Rispondono: questi poveri bambini erano senza genitori ed ora bisogna assolutamente che si adattino a noi. Ci è stato detto che questi bambini regrediscono, dobbiamo dare a loro il biberon?
 
Un'altra domanda: bisogna dire a scuola che è un bambino adottato?
 
Altri genitori sono talmente amanti della verità che non cessano di dire: il nostro bambino è adottato.
 
La questione che emerge a partire da queste situazioni è: ma quando vostro figlio smetterà di essere un bambino adottato? Arriva un momento in cui il bambino adottato dovrebbe smettere di essere adottato, non fosse che nel vostro discorso. Bisogna che possa entrare nell'anonimato, come qualunque bambino. Se lui stesso vuol dire a scuola che è stato adottato, è un problema suo, può dirlo, se ne parlerà in seguito. Ma anticipare continuamente, dire a tutti che il bambino è adottato, significa alla fine dire che gli date uno statuto a parte. Resterà sempre, qualunque cosa pensiate, vostro figlio, ma adottato. È una illustrazione di ciò che ha fissato uomini e donne adulte in uno statuto di  bambini adottivi.
 
In ogni caso, ci sono dei fatti che non si possono aggirare. I francesi, ad esempio, adottano 4000 bambini all'estero. Arrivano da 75 paesi. Sono dunque diversi dal punto di vista fenotipico. È vero che la questione sull'origine del bambino si pone quando dei genitori bianchi iscrivono un bambino nero a scuola o all'asilo. E comunque l'adozione è un fenomeno così corrente ai giorni nostri che è raro che un francese non conosca qualcuno che è stato adottato o che ha adottato. In breve, che la differenza di fenotipo susciti delle questioni sull'origine del bambino, non è di natura scandalosa o shoccante.
 
Un elemento dunque che mi sembra interessante nel discorso di chi è stato adottato, è quando, adulti, dicono: sono un figlio adottato; è qualcosa che si iscrive nella loro storia come un avvenimento di primaria importanza, un avvenimento che ha segnato. Questo avvenimento ha talmente segnato che li fissa in un momento e in quell'atto. L'atto d'abbandono, ad esempio.
 
Ho ricevuto una signora d'origine africana, adottata in Africa. È venuta da me perché non sapeva quale posizione prendere circa la decisione di suo padre di farle una donazione. Si trattava di una famiglia borghese che aveva avuto una figlia biologica dopo l'adozione, cosa che accade a volte. Si adotta un bambino e qualche tempo dopo la madre adottiva rimane incinta. Questa donna aveva dunque una sorella nata in seguito alla sua adozione.
 
Il padre, raggiunta una certa età, voleva fare una donazione alle sue figlie. Ha detto loro: la cosa migliore è che ciascuna di voi comperi un appartamento. Io vi do i soldi, così ciascuna di voi avrà il suo appartamento. La donna non voleva questa donazione, sotto pretesto che non era stata lei a chiedere di essere adottata.
 
Questa paziente ha avuto continuamente problemi, a scuola come nella vita sociale. Ha frequentato delinquenti di origine africana ai quali si è identificata in quanto donna nera. Non si è mai riconosciuta nella madre né nel padre adottivi. E questo ha comportato una grande sofferenza per tutti. Del resto non è raro che una donna o un uomo non si riconoscano nei colori del bambino adottato o che il bambino non si riconosca nei colori dei genitori. Per farla breve, questa ragazza ha fatto di tutto per giocare all'africana, esattamente ad immagine del discorso razzista che si trasmette sugli africani. Non vanno bene a scuola, non lavorano bene, deviano spesso verso la delinquenza. Lei ha fatto esattamente tutto ciò che attorno a lei si dice degli africani.
 
Ho chiesto a questa ragazza: lei ha un'idea di cosa chiede ai suoi genitori un bambino quando nasce? Ha idea di cosa ha chiesto lei per nascere alla sua genitrice? Ha chiesto qualcosa?
 
Lei risponde: chi mi dice che se fossi rimasta in Africa non sarei stata più felice che in Francia?
 
Io allora: se è questa la domanda, allora, francamente, a una domanda così non so rispondere, neanche lei del resto.
 
Statisticamente è possibile fare un'ipotesi. Lei è nata, ha vissuto in un paese africano. La gente della sua generazione ci vive e lavora. È possibile, a partire da quali sono stati i loro studi e da ciò che fanno come lavoro, dire in quale categoria sociale e professionale lei potrebbe essere. Si può dunque immaginare come lei sarebbe, come avrebbe potuto vivere nel suo paese. Si può calcolare tutto ciò con un margine ridotto di errore. È possibile fare questo, ma alla sola condizione di dimenticare che il destino individuale è sempre altro.
 
Come pensare il destino individuale? Quando qualcuno che ha conosciuto una rottura nella sua vita, come ad esempio un bambino adottato, pone la questione: il mio destino è veramente il mio destino? Cioè, la mia vita è la mia vita? Sono veramente quello stesso bambino africano che è nato laggiù e che è poi cresciuto in Francia con gente diversa e una cultura diversa? La vita che vivo giorno dopo giorno è la continuità della mia vita di bambino africano? Posso pensarmi come questa donna francese, che vive in una città francese, a cui si è inculcata la cultura francese?
 
Quando si è tormentati da una questione come questa, non c'è da stupirsi di scoprire che ci sono bambini che non hanno mai adottato i loro genitori. Perché non sono solo i genitori che adottano.
 
Un bambino che non si riconosce nel suo destino, nella sua vita con un padre ed una madre d'adozione, tende a sfidarli a dire che cos'è per loro il vero destino e la vera vita. C'è davvero una risposta che si possa dare che soddisfi il loro desiderio di sapere? Io non lo credo. In condizioni normali, quando i bambini sono animati dal desiderio di sapere sulla loro origine e i genitori adottivi raccontano loro ciò che sanno, questo sapere i bambini lo reclamano, una volta, due, tre, e poi, a un certo momento, tutto ciò cade nell'oblio, non li interessa più.
 
Ma in qualche figlio adottivo, soprattutto in quelli che hanno difficoltà ad adottare i loro genitori, c'è sempre qualcosa di più da sapere, qualcosa in rapporto con il prima. Non riescono a proiettarsi nel tempo come si fa quando si è conosciuta la propria storia, quando si è vissuti con i propri genitori, i nonni e quando si è ereditato quel racconto che permette al nostro immaginario di dispiegarsi.
 
Cosa si fa quando la narrazione si ferma alla prima generazione? A quale immaginario possiamo riferirci quando si è nati dopo il diluvio?
 
Ecco una storia che lo illustra. Ho avuto a che fare con una bambina che si guardava sempre allo specchio, guardava il suo ombelico e la madre trovava questo estremamente bizzarro e diceva: perché sei sempre lì a guardare il tuo ombelico? lei sa cosa si dice quando ci si guarda sempre l'ombelico? È ombelicista, questa bambina! [nombriliste, in francese, definisce qualcuno che sa solo "guardarsi l'ombelico", egocentrico, compiaciuto di sè ...]
 
Trattarla da ombelicista e non cercare di sapere cosa le passava nella testa, introduceva un significante pesante nella sua storia, e nessuno può immaginare ciò che un tale significante avrebbe potuto produrre come effetto di discorso nella vita di questa bambina. La madre l'ha portata da me e grande è stata la mia sorpresa nell'apprendere perché la bambina guardava il suo ombelico: “perché se ho l'ombelico, so che ho avuto una madre come tutti”.
 
A questo punto voi potete vedere molto semplicemente che quando non avete degli elementi sulla vostra storia, che cosa viene al posto del racconto? La traccia che marca il corpo. Lei mi ha detto: ho un ombelico, dunque sono come tutti. Ho una madre che mi ha portata nel suo ventre. Molti bambini adottivi pongono alla loro madre adottiva la stessa questione: mamma, tu mi hai portata nella tua pancia? Quella bambina almeno sa qualcosa, che il fatto di avere un ombelico significa che è fatta come tutti. È stata portata nel ventre di una donna, la sua genitrice.
 
Cosa resta da fare quando non si ha la risposta? Stimolare una risposta da parte   loro. Ogni tanto ci mettono talmente in difficoltà che si finisce per dire: ora basta! Soprattutto quando il bambino inizia con la fase dei perché. Mi succede sovente di dir loro: senti, su ciò che mi dici, un giorno, quando saprai leggere e scrivere, scriverai qualcosa. Sarò davvero felice di leggerti, per imparare ciò che avrai scritto su questa cosa.  Riconoscere loro un sapere stimola l'intelligenza dei nostri bambini.
 
Il racconto che facciamo loro e che trasmettiamo loro, poco importa chi noi siamo e la posizione nella quale ci troviamo, serve a costruire i miti individuali. I miti individuali li si costruisce. Accade a tutti di leggere delle storie ai nostri bambini. Il bambino ci domanda di leggergli una storia, sempre la stessa. Comincia quasi sempre così: c'era una volta. Il bambino finisce con l'impararla a memoria e ci corregge quando cambiamo una parola.
 
Ma avete sentito una sola volta il bambino, quando leggete: c'era una volta, chiedere: quando? Mai. Vi siete mai fatti la domanda del perché non pone mai la questione del quando? Ebbene, perché è questo il racconto, la fiction, non è un tempo storico. Perché una tale storia e non un'altra? Che cosa abbiamo suscitato in lui, a nostra insaputa, scegliendo una tale storia e leggendogliela? Non si sa.
 
Le fictions individuali si costruiscono a nostra insaputa. I nostri racconti presiedono al nostro arrivo al mondo, sono qualcosa che ci porta e che a nostra volta trasmettiamo. Sarà qualcosa che porteremo a modo nostro, quando si ha la fortuna di avere dei genitori che rispettano ciò che ci è personale. Il peccato capitale per me non è amare una donna; il peccato capitale è di condizionare un bambino e di uccidere la sua intelligenza. Si è in un mondo in cui il condizionamento dei bambini è frequente, che sia ideologico, religioso, culturale, educativo
 
Per concludere vorrei fare un legame tra i bambini adottati e i bambini degli immigrati. Per i figli degli immigrati c'è stato un prima e loro non sanno come situarsi rispetto a questo prima che i loro genitori perpetuano in una maniera o in un'altra. E questo è un vero problema. I figli di immigrati che sono nati nel paese di accoglienza, che è dunque il loro paese, la Francia ad esempio, non sanno come iscriversi nel tempo dei genitori e in quello presente. Devono restare fedeli al tempo dei genitori? Devono distaccarsene per iscriversi nel tempo che è il loro? Come trovare qualcosa che faccia continuità?
 
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