01/02/2020

Il Reale è che un cane non si sbaglia mai di padrone (Lacan)


di Fabrizio Gambini

Un cane non si sbaglia mai di padrone, ovvero un cane non erra. L’erranza è nostra, è umana quando “amiamo ma”; dunque con un limite, con una rappresentazione e un’idealizzazione dell’oggetto amato a cui attribuiamo l’onere di meritarsi l’amore di cui è appunto oggetto.

La scienza confonde il reale con la realtà fisica e biologica o, meglio, tratta la realtà fisica e biologica come se non ci fosse un reale, come se lo svelamento progressivo della verità, anche se potenzialmente infinito, fosse di fatto una progressione verso il vero. Ma se il vero è all’infinito, è come l’orizzonte: niente impedisce di muoversi in quella direzione ed è evidentemente di un movimento concreto, fruttuoso, che si tratta, ma l’orizzonte, lui, resta all’infinito e non si avvicina di un pelo.
La nozione di reale è complessa. Lo stesso Freud confondeva reale e realtà psichica. In fondo si aspettava da un progresso nelle neuroscienze degli avanzamenti del discorso della psicoanalisi. La barriera che si frappone tra scienza dello psichico e biologia è il reale. Il reale è ciò contro cui si sbatte, ciò che ci separa, strutturalmente, dalla realtà. Già nel 1899 (Traumdeutung) Freud parlava di un limite, di una barriera insormontabile. Lo chiamava Nabel, l’ombelico del sogno: il punto in cui il sogno scaturisce dal desiderio come un fungo scaturisce dal suo micelio. Lì, nell’ombelico del sogno, la funzione cerebrale si annoda con il linguaggio in un modo che la coscienza non è in grado di esplorare e che l’indagine scientifica può solo indicare per orientarsi, come si può indicare l’orizzonte per cercare di non errare.
Michel Jouvet non è uno psicoanalista, è un neurofisiologo che ha dedicato una vita di studio ai meccanismi del sonno e del sogno. Ad un certo punto racconta che, appisolatosi durante un volo di ritorno dagli Stati Uniti, ha sognato dei gattini vestiti da poliziotti. Era un’immagine buffa, sorprendente, totalmente avulsa da ogni contesto affettivo o rappresentativo. Quando ci ha pensato su un momento gli è venuto in mente che ritornava da Minneapolis e in francese il vezzeggiativo usato per gattino è minou o minet, e un minet à police è appunto un gattino poliziotto. Minneapolis, minet à police; qual è il meccanismo per cui l’omofonia dei significanti si traduce in un’immagine che appare come tale alla coscienza del sognatore? Non c’è solo biologia; c’è un reale della lettera che opera senza che se ne sappia un tubo, senza che se ne possa sapere un tubo. L’inconscio è strutturale, è strutturalmente tale; non è la cantina dove si custodiscono e si dimenticano oggetti poco adatti ad essere esibiti in salotto.
L’amore di un cane rileva dello stesso meccanismo: si scrive nel biologico senza rappresentazione. Un cane non ama il padrone perché buono, perché bello, perché da lui dipende per la sua sopravvivenza o comodità. Un cane ama il padrone perché qualcosa si scrive da qualche parte, ed è di questa scrittura che noi vediamo gli effetti. Quando dico che si tratta di una scrittura, dico anche che è un effetto di linguaggio e che l’amore di un cane per un uomo presuppone che ci sia del linguaggio: la domesticazione del lupo è un prodotto del linguaggio e della cultura. È insomma un amore reale perché è all’ombelico, nel nodo, nella cicatrice, nelle circonvoluzioni che segnano il passaggio tra biologico e psichico. Passaggio che non è una soglia traversabile: o si è di qua o si è di là, o prima di qua e poi di là. Piuttosto nel passaggio labirintico, e reale, ci si perde, si erra, non si può non perdersi.

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