Freud termina la sua analisi interminabile con più riscritture dell’
Uomo Mosè.
Un punto interessa specialmente il nostro tema di questa mattina: cosa distingue il potere del padre, messo in atto da Mosè con un esilio, con un esodo, dal potere tirannico e oppressivo del Faraone? In attesa di trovare una formulazione migliore possiamo dire: il padre è il potere che si può odiare senza timore di ritorsione da parte sua.
L’odio è compreso nel patto, nel contratto; anzi l’odio potrà essere persino considerato come una espressione dell’amore.
Capita non raramente nelle famiglie.
Ma se capita tra due famiglie che non fanno riferimento allo stesso padre, si può presto arrivare alle mani o a qualche altra forma di violenza.
Lacan aveva proposto la
passe[1] per permettere agli analisti di sfuggire al potere del tiranno.
La
passe è stato il tentativo di mettere in atto un riconoscimento non cannibalico, una via di uscita da una doppia alienazione: totalitaria da una parte o scettica, troppo disincantata dall’altra.
La questione del riconoscimento è un punto sensibile per gli analisti e le società psicoanalitiche sono un vero laboratorio per questa questione
[2].
Un riconoscimento normalmente funziona con un riferimento all’
almeno-uno nel grande Altro.
L’autorità
almeno-una che ha avuto o può avere declinazioni diverse: Dio, Padre, Padre della Patria ...
Il riconoscimento si iscrive per lo più in termini di filiazione e questo comporta che se io, per qualsiasi ragione, non sono riconosciuto, non è riconosciuto anche il padre cui faccio riferimento, cioè l’
almeno-uno cui devo ciò che sono.
Gli psicoanalisti dovrebbero essere capaci di riconoscere che nel grande Altro non c’è nulla o nessuno che possa dare loro un riconoscimento, tantomeno sul modo di un’affiliazione.
La via spesso praticata dai gruppi di analisti è quella del riferimento ad un insegnamento autorevole con la inevitabile deriva delle diverse scolastiche freudiane, kleiniane, lacaniane ...
Lacan ha preso posizione riguardo a questa questione con il suo celebre
l’analista non si riconosce che da se stesso …
Queste giornate si propongono di porre la nostra attenzione su
I legami tra analisti e l’inconscio.
L’inconscio ci mette in una relazione al sapere che non ci piace: non so. Quello che posso sapere è che non so e non so quello che dico.
È il fantasma che organizza il mio sapere inconscio, non senza riferimento al tiranno, al faraone, sopra evocato, al padre per amore del quale abbiamo consentito alla rinuncia e al sacrificio.
I gruppi di analisti non sono esonerati dal sapere inconscio che il fantasma introduce, ma a volte cercano di organizzarsi con la trasmissione di un sapere da maestro ad allievo.
In un gruppo di analisti non sono in primo luogo dei saperi che devono essere trasmessi, ma delle posizioni corrette nei confronti del sapere, e cioè la trasmissione di un sapere coerente con la specificità dell’analisi.
La fine di una cura può organizzarsi attorno ad un raddrizzamento, ad un riconoscimento del proprio fantasma, del proprio desiderio inconscio, e quindi attorno ad un miglior aggiustamento alla realtà e alla realizzazione dei propri desideri.
Ma per quanto trattiamo qui questa mattina la domanda è: il fantasma è l’orizzonte insuperabile della nostra ricerca di sapere?
Compreso l’inter-detto che il fantasma stesso istituisce?
Sapere in questo senso vuol dire destituzione soggettiva, vuol dire ciò che nella struttura ci è più caro, ciò che è più sacro.
Si dice che abbiamo perso la dimensione del sacro: il sacro si è rifugiato nella nostra moderna soggettività.
È il fantasma, in quanto tale, che costituisce il limite della nostra pratica?
Lacan con riferimento alla sua pratica ha spesso ripetuto:
Faut pas aller trop loin.
Ça pourrait peut-être rendre fou, peut-être.
Queste affermazioni di Lacan non riguardano solo la sua pratica, riguardano la pratica di ognuno: ogni analista può e deve chiedersi “fin dove?”, fino a che punto condurre un analizzante.
È la questione che riguarda la fine della cura, il terminabile, e l’interminabile.
Si iscrive in questo orizzonte la questione, spesso posta, di ciò che differenzierebbe un’analisi da una psicoterapia.
La fine di una cura dovrebbe metterci in una posizione nuova nei confronti del nostro riferimento all’autorità tirannica di cui ho parlato all'inizio, un rapporto altro al Faraone!
Questo dovrebbe metterci, nello stesso tempo, in una posizione più “giusta” e meno alienata nei confronti del sapere: evitando di denunciarlo come totalitario o come troppo insoddisfacente.
Quando non c’è più un sapere che comanda si può produrre un tipo di disincanto che autorizza un fare quello che si vuole.
Riguardo a questo, la psicoanalisi, e Lacan in particolare, introducono un diverso registro.
Proponendo la
passe Lacan ha tentato di proporre una uscita dal transfert, una liquidazione del transfert, proprio lui accusato di essere un accanito sostenitore del transfert e anche accusato di legare (
ficeler) i suoi analizzanti attraverso il suo insegnamento.
Come hanno reagito i suoi allievi (alcuni almeno!) alla sua domanda: come potete risolvere il transfert, come potete cavarvela con il transfert?
Alcuni hanno reagito con una specie di esaltazione forsennata del loro amore per lui.
Essere nominati AE (Analyste de l’Ecole) avrebbe significato che la propria analisi e il proprio analista, chiunque fosse, sarebbero stati riconosciuti e autentificati da Lacan stesso.
La soggettività resta confrontata ad una mancanza, ad una
fente, ad una
faille.
Il Jury ha corso (e correrebbe) il rischio di essere preso per l’Altro dell’Altro, come un metalinguaggio che avrebbe potuto rendere ragione di quello che era avvenuto nella cura o, invece, invalidarla.
Quale altra via è possibile?
Charles Melman ha tentato di dirlo con due termini: collegialità e transfert di lavoro.
Un tipo di collegialità il cui referente non sia in posizione di padre o di maestro, ma la partecipazione stessa a questa collegialità.
Il modo con cui ci si unisce, ciò che fa legame, dovrebbe essere questo: non c’è null’altro che il reale, il reale disabitato.
L’
Ecole Freudienne ha dedicato il suo congresso annuale
[3] nel 1978 alla trasmissione della psicoanalisi, successivamente più volte ripreso.
Se l’analista rifiuta la posizione di padre per l’analizzante, diventa insegnante, maestro?
Come ho già sopra ricordato, alcuni hanno rimproverato a Lacan di legare (
ficeler) i suoi allievi.
Se il principio che regola la collegialità è l’insieme vuoto (una serie di insiemi che si intersecano con un insieme vuoto) e questo non solo come conseguenza dell’insegnamento di Lacan, ma come conseguenza della psicoanalisi stessa e della sua pratica, questo può metterci in rapporto con l’insegnamento in un modo attraversato dall’inconscio e dal fantasma.
Lacan introducendo la passe ha detto:
Moi, j’ai mis en place la passe, parce que je veux savoir. Lacan vuol sapere qualcosa e i suoi allievi non gli rispondono, allora, poiché
vuole sapere propone una procedura alla quale ci si può prestare o non prestare.
Sembra quasi che Lacan metta come motore della sua proposta le ambizioni da cui Freud metteva in guardia: generose, salvatrici, guaritrici…
Lacan mette al principio:
voglio sapere, cioè mette l’accento sul desiderio dell’analista, quello che Freud ha inventato, il desiderio di sapere, costi quel che costi.
Je veux savoir, je veux savoir pourquoi on devient analyste, et on ne me repond pas là-dessus.
Alors je vous propose ce système de la passe qui par ailleurs peut permettre de faire que soit reconnu ce qui …
Non intendo proporre la questione della
passe, ma ho cercato di riproporre qui questa mattina la questione del Reale della trasmissione: non si tratta di conoscenze, ma di qualcosa che faccia i conti con il buco di ogni sapere.
Non si tratta del sapere, ma di una
posizione[4] nei confronti del sapere.
Potrà questa posizione non fare litigare gli analisti?
Conferenza pronunciata al primo Convegno nazionale della Associazione ALIPSI, I legami tra analisti e l’inconscio nella storia e nella attualità della psicoanalisi, Milano, 26-27 marzo 2011.