01/11/2019

Il femminicido. Le parole e le cose


di Graciela Peña Alfaro

Il termine femminicidio ha una lunga storia.  E’ nato nella Gran Bretagna a metà del ‘800 ed è intimamente collegato con l’inizio moderno del movimento femminista, preceduto dalla lotta delle suffragiste per il diritto al voto delle donne.  Nel 1848 il termine femicide (femminicidio) è stato inserito nel compendio legislativo inglese Wharton’s Law Lexicon ed era definito come “l’uccisione di una donna”.

Tuttavia, è stato soltanto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso che questo vocabolo assunse le sue connotazioni attuali.  E’ stata Marcela Lagarde, antropologa messicana, che riprendendo le tesi di due accademiche americane, collocò il fenomeno dell’uccisione delle donne da parte degli uomini all’interno di un contesto teorico, sociale, politico e giuridico ampio.  

A partire delle ricerche e studi sull’uccisione, stupro, mutilazione e torture inflitte a molte donne a Ciudad Juárez, Messico, così come gli omicidi di donne da parte degli uomini in altre città del Messico e nel mondo, Marcela Lagarde giunse a definire il femminicidio come la forma estrema di violenza inflitte sulle donne, che comprende la violazione dei suoi diritti pubblici e privati attraverso diverse manifestazioni di violenza fino ad arrecarle la morte. Il femminicidio, afferma, ha luogo all’interno di un contesto sociale, politico e giuridico che svuota e minimizza i reati che si compiono contro le donne e che determina l’impunità di coloro che li compiono.

L’uso di questo termine ha destato molte perplessità e non sono pochi coloro che ritengono che questo vocabolo sia superfluo e innecessario.  A questo riguardo, è stato pubblicato sul sito de l’Association Lacanienne Internationale l’articolo di una giornalista, Natacha Polony, intitolato Le féminicide ou l’art di mal nommer. 

In questo articolo, la giornalista, pur riconoscendo la gravità del fenomeno dell’uccisione delle donne da parte dei partner o degli ex-partner e la necessità di adottare tutte le misure volte a tutelarle, avanza dei giudizi critici per ciò che riguarda l’uso del vocabolo femminicidio.  

Pretendere, dice Polony, “come fanno le gentili neo-femministe” che l’omicidio delle donne venga inserito nel codice penale come aggravante, “distruggerebbe l’universalismo che è la cosa più bella dell’Illuminismo”.

Secondo la giornalista, questo neologismo compare “come uno slogan per oscurare la complessità del reale”.  La distinzione manichea dell’uomo come il cattivo e della donna come vittima, non contempla il fatto che l’uomo che uccide non lo fa perché la sua partner o ex-partner è una donna, ma perché lei sarebbe la sua donna e l’omicidio avverrebbe all’interno di una relazione patologica.

Al di là del fatto che è evidente che Natacha Polony misconosce la complessità di questo fenomeno, che richiede un’analisi approfondita, è interessante ad ogni modo riflettere sull’affermazione di questa nuova denominazione, che viene adottata sempre di più in ambiti sociali, politici, giuridici di diversi paesi del mondo.

Possiamo avvicinarsi alla questione prendendo in considerazione due elementi: da una parte la nominazione; dall’altra, l’appartenenza dell’uomo e della donna all’interno di un “medesimo universo”.

Le denominazioni sono fatte a partire dalle parole; sono gli strumenti per delineare le cose.  Anzi, come dice Lacan, tutta la scienza rimane a lungo nella notte, impigliata nel linguaggio, finché compare un nuovo concetto che consente di fare un salto epistemologico.  Lacan pone come esempio la teoria di Lavoisier sulla conservazione della massa che lo condusse a battezzare un nuovo elemento, l’ossigeno.

La nominazione è un privilegio del parlessere.  E’ una funzione del dire, “è un evento”.  Non è né vera né falsa. E’ o non è. Possiamo dire che, come un atto, implica la contingenza, “ciò che cessa di non scriversi” ed è intimamente connesso allo Zeitgeist, allo “spirito dei tempi”.  A differenza dei significanti che sono nell’Altro, “da prendere”, la nominazione, ne crea uno scarto, ex-siste.   La sua efficacia dipende dalla sua capacità di annodare le tre consistenze in modo borromeo. 

L’annodamento della nominazione è inscindibile dal legame sociale.  Il nome delle cose, così come il nome proprio, deve essere ratificato per poter esistere.  Certo, come Joyce, si può ambire a “farsi un nome” attraverso le proprie opere o le proprie azioni, ma occorre che queste vengano riconosciute da altri.  


Ora, chi è che nomina?  Nella Bibbia, è Dio, è il Padre.  Lacan colloca la nominazione dalla parte della funzione del Nome-del-Padre.  E’ il Padre che nomina, è il Padre che dà il nome a un altro o a una cosa.  Si tratta della nominazione simbolica.  

Nella nostra contemporaneità, tuttavia, caratterizzata da un appiattamento dell’impalcatura simbolica, ciò che occupa il posto preponderante è un universo immaginario, dove i nomi, anziché alludere a una presenza su un fondo di assenza, sono divenuti reali.  La nominazione reale ha, per di più, sostituito la nominazione simbolica.  Ciò che la nominazione reale nomina è precario e transitorio, puramente metonimico, perché è in rapporto diretto al godimento.

Non stupisce, pertanto, che le nominazioni inedite non sfuggano a questa logica e che vengano adottate o avversate da una prospettiva immaginaria, ambito nel quale, come sappiamo, vige una dimensione speculare di amore e odio, di rivalità, di invidia, di aggressività.  

Il vocabolo femminicidio, nato nella Gran Bretagna nel ‘800 all’interno del movimento femminista, è diventato nel linguaggio corrente, inscindibile dalle “gentili neo-femministe” e ciò suscita in non pochi fastidio e avversione.  Il fatto che, tuttora, si sottolinei socialmente l’esigenza di rivisitare i concetti sui quali poggia l’analisi del rapporto uomo-donna e che, proprio a partire dalle donne, provengano dei concetti e delle analisi nuove, desta un misto di disgusto e di antipatia.  In tanti lo considerano un’invasione di campo illegittima, una sorta di usurpazione che non merita nemmeno di essere presa in considerazione.  

E’ fondamentale, però, andare oltre questa dimensione immaginaria e approdare a un’analisi più vasta.  Innanzitutto, la parola femminicidio è nata all’interno di una concezione teorica, sociale, sociologica e antropologica che consente di analizzare il fenomeno dell’uccisione delle donne da parte degli uomini, a partire da una prospettiva di maggior respiro.  Ciò ha determinato in diversi ambiti –psicoanalitico, giuridico, sociologico, antropologico- un approfondimento e uno sguardo più attento a un fenomeno che non aveva meritato, fino ad allora, particolare attenzione.  

In Italia, secondo l’aggiornamento statistico dell’Eures, da gennaio ad ottobre del 2018 si sono verificati 106 casi di femminicidio, uno ogni 72 ore.  Cifre che non possono che destare una grande preoccupazione.  

A livello mondiale è aumentato il livello di attenzione di questo fenomeno così come l’emanazione di leggi sia a livello nazionale sia europee contro la violenza sulle donne.  Non solo, sono nate da decenni dei centri anti violenza per tutelare e assistere le donne oggetto di violenza. Tutto questo, certamente, non può che considerarsi costruttivo.  

Ora, dal punto di vista della psicoanalisi, la posizione uomo e la posizione donna non sono né simmetriche né complementari.  Non possiamo accostarci all’analisi dei rapporti sessuati con la stessa logica con la quale analizziamo abitualmente il nostro mondo.  Occorre, se desideriamo analizzare un fenomeno tenendo conto della psicoanalisi, tener presente la complessità che in gioco, evitando delle conclusioni affrettate che, quelle sì, “oscurano il reale”.

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