01/05/2018

C'è modo e modo di dire le cose


di Marilena De Luca

Il titolo di questo scritto allude alla frase con cui solitamente intendiamo che esistono modi più o meno garbati per esprimere in parole un medesimo pensiero. Modo tuttavia è anche un termine grammaticale attinente alla coniugazione dei verbi.
La grammatica non ha fama di suscitare grandi simpatie, eppure ultimamente sembra che in Italia si stia diffondendo un certo interesse intorno ad essa. Non sarà infatti sfuggito a nessuno come all'improvviso da più parti si parli del “congiuntivo”. Non si tratta solo dei commenti ironici, un po' saccenti che si ascoltano a proposito di personaggi pubblici che lo confondono con il “condizionale”.
Il Prof. Luigi Dei, Rettore dell'Università di Firenze, mi ha autorizzata a citare una sua breve riflessione postata su un “social”, che, a dimostrazione di un'attenzione diffusa, è diventata virale.
Egli propone che la decadenza del congiuntivo abbia a che fare con un anelito alla semplificazione, ma sembra alludere al fatto che non si perde solo un che di grammaticale quando osserva che l'indicativo è assertivo, comunica certezza, mentre il congiuntivo introduce la possibilità di dubbio e di invito al confronto.
Il congiuntivo è il modo per esprimere l'idea di possibilità, di ipotesi, chiama in causa l'alea del vivere. E' il modo della sfumatura, della sensibilità, della rinuncia ad indicare la certezza. Non per niente compare spesso preceduto da un “se” e seguito da un condizionale, il che ci permette di sottolineare la qualità immaginaria di una frase, di una metafora, come quando diciamo: “se mio nonno avesse le ruote sarebbe un tram”, ma è anche il modo per esprimere un auspicio, il desiderio che qualcosa si avveri come nella frase: “che tu possa essere felice”. Inoltre la denominazione stessa allude all'idea di legame, di qualcosa che congiunge. 
Un conoscente, un insegnante intelligente e sensibile ha avuto la capacità di donarmi una sintesi che mi sembra perfetta di tutto ciò dicendomi: “è un modo di stare al mondo, forse oggi non il più diffuso”.
Forse la preoccupazione che semplificare troppo comporti una perdita costosa per noi umani e non solo per la grammatica; non riguarda solo i cosiddetti intellettuali, se accade che al “congiuntivo” e al ripasso della sua declinazione venga intitolata e dedicata addirittura una canzone del Festival di Sanremo di quest'anno.
Al testo della canzone, non sfugge il senso dell'importanza della decadenza del “modo dubitativo e quasi riflessivo”, del “modo” per esprimere qualcosa che è “relativo a ciò che è soggettivo”, a ciò che non attiene propriamente alla realtà, ma a ciò che immaginiamo possa avvenire, essere accaduto o che avremmo desiderato accadesse. Non per niente il proverbio: “se il giovane sapesse e il vecchio potesse” utilizza il congiuntivo. Qual è lo scopo? Dirci che la cosa la possiamo immaginare, ma che non accadrà mai, che non appartiene a ciò che accade nella realtà, ma bensì alla dinamica del desiderio, dell'anelito che rende interessante la vita spingendoci avanti, sempre avanti, proponendoci l'illusione di un avvenire, che è sempre, parafrasando Freud, l'avvenire a partire da un'illusione. E questo rimando alla questione di dire il desiderio ci interroga come analisti.
E' possibile pensare che ci sia una sorta di sinergia e consequenzialità nel sentire di poter fare a meno di una modalità specifica per articolare ciò che attiene all'auspicio, al desiderio in una società in cui l'individuo è valorizzato in veste di consumatore il che comporta di per sé che la questione del desiderare si banalizzi in “voglia” virtualmente sempre soddisfabile, in quanto il limite viene ad essere il puro e semplice possesso di denaro. 
La percezione della mancanza passa così dal registro nevrotico della frustrazione, in cui non si riesce a farsene una ragione dell'esistenza di un impossibile, a quello della privazione molto più difficile da elaborare e superare e che può sfociare in una rabbia e in un odio molto più violenti e distruttivi.
La questione potrebbe essere posta su più piani non privi di importanza per la clinica della contemporaneità a partire dalla scoperta fondamentale di Freud che il desiderio misconosciuto trova la sua via di espressione nel sintomo. Il desiderio, cosciente e ancor di più inconscio, è cosa ben diversa dal bisogno naturale; ha un profondo legame con il linguaggio, nella cura è il fluire della catena associativa che attraverso la peregrinazione del discorso, porta a leggerne quel po' che si può arrivare a dirne, riconoscendolo e facendosene qualcosa.
Il privarsi di una modalità specifica per nominare il dubbio, l'auspicio, il desiderio sembra un effetto, un effetto che non è a sua volta senza conseguenze. La semplificazione dell'indicativo ci complica le cose quando si tratta di distinguere, nella più classica delle logiche, ciò che è dell'ordine del possibile, da ciò che attiene al necessario, cioè a quel che non può non accadere, in contrapposizione a ciò che appartiene invece all'impossibile, vale a dire a ciò che non può accadere. 
L'uso dell'indicativo rischia di farci andare troppo di fretta, di precipitarci in una logica binaria, quella per cui le cose sono necessarie o impossibili, di farci perdere di vista quanto di immaginario sostiene il nostro pensiero.
Una logica necessario vs. impossibile è di-sperante, il che ci riporta a quanto esponeva in un precedente editoriale Josiane Froissart ricordandoci che il suicidio rappresenta la seconda causa di morte tra i giovani. Se poi si pensa che la prima sono gli incidenti stradali e che spesso ne è coinvolto un giovane sicuro che sia impossibile che la cosa lo riguardi, si coglie che il nostro interesse non è rivolto ad un'asettica purezza della lingua, ma a riconoscere nel generale del discorso sociale quel che la clinica ci insegna nell'ascolto del discorso particolare, soprattutto di giovani.
Giovani sempre più in difficoltà ad articolare l'angoscia in una catena associativa in cui possa emergere qualche significante che apra ad un'altra possibilità di senso; all'opportunità di sentire nella diacronia del discorso l'affiorare sincronico di una lettera che insinuandosi (stiamo parlando naturalmente del lapsus), stravolga un senso scontato ed apra un altro scenario in cui non ci sia sempre e solo lo sguardo di un piccolo altro che dice: “sei troppo grassa”, “sei uno sfigato” e così via.

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