Durante tutti gli anni nei quali ho lavorato all’interno di un servizio de l’ASE, (Aide sociale à l’enfance), (consultorio di sostegno ai bambini e alle loro famiglie per la protezione e la tutela dell’infanzia) ho ricevuto dei candidati che non avevano altro in comune che il desiderio di adottare un bambino. Tutti coloro che come me lavorano in un ambito di questa natura, sono al corrente delle difficoltà di stabilire dei criteri generali che consentano di valutare il profilo del “buon” candidato.
Quali sono i criteri oggettivi che permettono di dire di sì oppure di no a un candidato? Ogni volta che ho avuto l’occasione di lavorare con gli psicologi e i lavoratori sociali, pongo loro questa domanda.
Raggrupperei questi criteri in alcune categorie: la coerenza del progetto, il lutto per il bambino biologico, la solidità e l’equilibrio della coppia che si candida, la loro età, la loro cerchia familiare, il loro radicamento nel tessuto sociale e, per ultimo, l’assenza di patologie o malattie gravi.
Ecco, grosso modo, i criteri sui quali tutti sono d’accordo. Se questo sembra chiaro, diventa molto meno chiaro quando si tratta di identificare questi criteri nelle testimonianze di ognuno dei candidati.
L’orientamento sessuale non è preso in considerazione tranne che in modo indiretto in questi criteri. Quando si dice “una coppia”, ciò equivale a dire una coppia etero. Allo stesso modo, quando si dice una “persona sola”, si prende in considerazione la possibilità che trovi la sua anima gemella oppure che sia sufficientemente circondata da poter contare sui suoi genitori, fratelli, sorelle, cugini, ecc.
Si parte dall’ipotesi, condivisa da tutti, che l’adozione, affinché sia vivibile per i genitori adottivi, è un’adozione che fanno tre generazioni: i bambini, i genitori e i nonni. Il bambino è adottato da una coppia di genitori, o da un genitore solo e s’inscrive automaticamente nel lignaggio che lo integra al suo interno come un membro a tutti gli effetti.
Si parte da questo principio per attenuare l’impatto dell’adozione da parte di un genitore solo. Si tende generalmente ad affidare più facilmente un bambino a un genitore solo che a una coppia omosessuale.
Qui si coglie una prima contraddizione. Normalmente, l’orientamento sessuale si esclude come criterio di riferimento, positivo o negativo, nella valutazione di un candidato. Qualunque argomento fondato sull’orientamento sessuale è suscettibile di invalidare il giudizio. Questo è un principio di base sul quale non si transige: accogliere gli uomini e le donne che si presentano come candidati senza considerare la loro appartenenza a una categoria definita dalle loro origini sociali, razziali oppure dall’orientamento sessuale.
Seconda contraddizione. Perché siamo disposti ad accettare la candidatura di una persona sola, con il pretesto che il bambino potrà contare su una famiglia allargata per uscire da un isolamento potenziale con il suo genitore e, allo stesso tempo, esitiamo quando si tratta di una persona omosessuale? Se l’omosessualità o l’eterosessualità è contagiosa, non c’è motivo per il quale in una coppia eterosessuale uno dei figli possa diventare omosessuale. C’è dunque qualcos’altro che entra in gioco e che deve essere preso in considerazione.
Come definire quest’altra cosa o coglierla? Si può dire, quando si è ascoltata una coppia omosessuale quattro o cinque volte, che è suscettibile di determinare l’orientamento sessuale dei figli che verranno? No.
Possiamo fare come se il destino individuale fosse già scritto e che la particolarità del destino adulto sarebbe quello di compierlo?
Se si parte dall’ipotesi che il bambino non è un diritto, la nostra paura di vedere tutti gli omosessuali diventare genitori si stempera un po’. Il matrimonio per tutti che dà in Francia il diritto di sposarsi e di avere dei bambini tralascia la questione del Reale. Esistono oggi in Francia miglia di coppie che attendono da anni l’arrivo di un bambino. Non ci saranno mai sufficienti bambini adottabili giuridicamente per soddisfare ogni domanda.
Possiamo veramente contare sulla scienza per supplire alla mancanza di bambini? Ancora una volta, no. Abbiamo visto che la procreazione medicalmente assistita non funziona sempre. Nessuno, l’ho già scritto, ha il potere di creare un bambino.
Si è visto precedentemente, un partner sessuale la cui donna desidera che le dia un bambino, non ha, il pover’uomo, altro da dare che il suo amore. Può, certamente, fare l’amore con lei ma di là a credere di avere il potere di fare un bambino c’è un passo… che non si può fare. Nessun uomo, nessuna donna possiede quel potere creatore. In compenso, l’uomo e la donna sono sessuati, offrono i loro gameti maschi e femmine in un atto di amore e desiderio reciproco. Ma quello non genera per forza un bambino.
I medici non si stancano di ripetere ogni volta che intervengono per aiutare un uomo e una donna nel loro tentativo di concepire un bambino che “dovrebbe funzionare”. Le coppie, etero o lesbiche, ben presto devono constatare amaramente che non funziona ogni volta. Questa constatazione, quando viene integrata all’interno di una riflessione sana che può essere fatta
après-coup, mostra che il corpo è più complesso di una macchina che si possa mettere in moto; che questa “macchina” obbedisce a un altro ordine che sfugge agli interventi, quandanche siano molto abili. Quest’ordine è quello dell’inconscio.
Tratto da: Nazir Hamad, “Y a-t-il un profil de candidat idéal en adoption? Sito dell’ALI-Parigi
file:///C:/Users/utente/Desktop/graciela/Sito%20ALI-To%20editoriale%20marzo%202016%20Hamad%20da%20tradurre.htm Traduzione a cura di Graciela Peña Alfaro