01/02/2018

"Specchio delle mie brame..."


di Marilena De Luca

Che cosa adombra e nel contempo illumina lo specchio della favola di Biancaneve? Perché alla regina non è sufficiente vedere, vedersi e rispondersi con il proprio sguardo? Per quale ragione la favola necessita che la risposta arrivi da un altrove, da una voce al di là dello specchio? E soprattutto che cosa chiede la regina? Solo una conferma estetica o non piuttosto “chi è lei”? Perché poi un personaggio, rappresentato come potente, necessita di conferme e di annientare una presunta rivale, nelle vesti di una fragile bimba?
 
Le favole sono da sempre il modo in cui, talvolta senza rendercene pienamente conto, narriamo ai bimbi ciò che ci accede come umani. Sappiamo che un cane, un gatto o un animale in genere attacca come un rivale la propria immagine allo specchio e non la riconosce mai come propria, il piccolo d'uomo sembra in grado di farlo già a sei mesi. Che cosa glielo consente? E' una cosa così consueta ciò che fa in modo che possa accadere, da essere dato per scontato. La questione è che, almeno per quanto ne sappiamo, nessun simile dice al cane e al gatto: “quello sei tu”. Invece per il piccolo d'uomo c'è qualcuno, di solito una mamma, ma non necessariamente, che risponde ad una domanda inespressa: “Sei tu piccolo/piccola...e vedi ci sono anch'io lì, proprio come te”. Il tramite dello specchio consente al cucciolo umano un abbozzo di intuizione della forma del proprio corpo e del suo situarsi nello spazio in relazione ad altri corpi ed oggetti.
 
In tale paradossale vedersi guardato/a dai propri occhi, che non si sanno essere propri, è essenziale la parola che viene dall'altro perché il bambino possa anticipare immaginariamente la forma totale del proprio corpo, assumere una certa immagine di sé iniziando a percorrere processi di identificazione.
 
Qualcuno deve dire “sei tu” perché poi si possa dire “sono io”, anche se sappiamo che quel “sono io” rimarrà poi sempre un enigma, un semplice nome proprio, privo di un significato che rimandi ad un'essenza, un suono a cui si risponde, nient'altro e allora... aggiungiamo titoli, attributi, descrizioni di competenze e saperi acquisiti, come potessero fornire un'essenza, una consistenza non effimera e sempre sfuggente alla virtualità speculare di quel “sono io”.
 
Io è sempre l'altro, lo sperimentiamo ogni volta che ci vediamo rispecchiati inaspettatamente in una vetrina, ce lo mostra la signora con grave problema di obesità che un giorno compie un secondo giro di consapevolezza di fronte allo specchio di un parrucchiere, e ancora un'altra donna, costantemente malmenata dal partner, che diventa in grado di intraprendere un percorso di liberazione quando all'improvviso si vede tumefatta e sanguinante nello specchio davanti al quale è caduta sotto i colpi del marito. Ce lo insegna la clinica della paranoia quando un paziente ci avverte che i suoi occhi lo fissano da un angolo della parete.
 
Come spesso accade, la grande letteratura non ha necessità di fare della teoria per ricordarci che la specificità dello “stadio dello specchio” non è una questione che si esaurisce nei primi mesi di vita, ma piuttosto qualcosa che accompagna costantemente la nostra vita.
 
Il protagonista di Opinioni di un clown di Heinrich Böll, ha necessità di compiere lunghi esercizi allo specchio per acquisire la capacità di trasformare il volto in una maschera depersonalizzata, ma dopo l'abbandono della sua compagna, non è più in grado di compierli, perché se quando li termina non c'è più lo sguardo di Maria in cui specchiarsi e riconoscersi, teme di impazzire.
 
 
La favola citata, come il racconto di Böll, mettono in evidenza come continuiamo a cercare lungo tutta la vita la ripetizione di qualcosa che rimanda a quel primo segno di riconoscimento ricevuto dalla madre, quel qualcosa che funziona come tratto unario intorno a cui andrà a costituirsi l'ideale dell'io e poiché non si tratta di vedere/vedersi, ma di sapersi oggetto dello sguardo, la cosa funziona anche per un bimbo non vedente.
 
Se però poi torniamo alla favola che introduce questo testo, c'è un altro aspetto da sottolineare e che è ben in evidenza nel cuore del racconto: il tema della rivalità, della ricerca del primato, dell'unicità.
 
Il punto è che tutto non può che giocarsi in termini di alienazione, nell'immagine che si vuol dare di sé, nel reperimento del proprio desiderio nell'oggetto del desiderio dell'altro. Un'alienazione di cui non si sa e non si vuole sapere la strutturale necessità e allora non resta che affannarsi a tentare di imporsi e di dominare per uscirne, per conquistare il proprio posto sull'altro, per afferrare un oggetto che finalmente saturi il desiderio.
 
Insomma, se  non ci si accontenta di quel “sei tu quello che risponde a quel nome” non resta che lottare come il cane ed il gatto con il proprio simile che si vede allo specchio e tentare di annientare quella piccola, splendida Biancaneve che ci sembrava di essere stati agli occhi della madre e non ci sentiamo più  agli occhi del mondo. Qualcuno sembra averci soppiantato, aver usurpato il posto unico e non di uno tra gli altri a cui pensavamo di avere diritto. Le invidie fraterne, quelle dei vecchi verso i giovani e tanti più gravi mali del mondo ne sono l'esempio.
 
Potrebbe valer la pena riflettere sul fatto che l'analisi che propone Lacan a proposito dell'io come funzione psichica strutturalmente alienata e intrinsecamente esposta a giocarsi tra l'annullarsi nell'altro e l'annullare l'altro permette di evitare nella lettura delle condotte umane l'introduzione di quell'oscuro, epistemologicamente fragile concetto, tra lo psichico ed il biologico, denominato  “invidia primaria”, a cui non può evitare di far ricorso  la peraltro eccelsa clinica Melanie Klein.
 
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