01/10/2019

Topini, mucche e uomini


di Elena Garritano

Lui tratta noi come topini e i topini come persone”, mi ha detto una volta un paziente psicotico a proposito del suo psichiatra, che osservava la foto degli animali domestici di sua figlia.
Frase concisa, il cui mistero appartiene a lui e a quel momento; resta, però, lo spunto per una riflessione più ampia. Di recente, l’Ali ha ospitato lo psicoanalista Franco Lolli, che in un suo libro si chiede cosa distingua Liliana, una paziente affetta da una grave disabilità, dal suo gatto (Prima di essere io. 2017). Lolli ha il coraggio delle domande scomode, perché, come sostiene in un altro dei suoi libri (Disabilità intellettiva e sessualità, 2010), se si vuole affrontare la questione della patologia grave, che sia la disabilità o la psicosi, non si può essere politically correct.
Così, si interroga su cosa renda umano un essere umano quando tutto manca, mentre è comunemente accettato che gli animali domestici ci siano così vicini da essere membri di famiglia. 
Allora, cosa distingue l’uomo dagli animali? La scienza sembra interessata più a capire cosa fa somiglianza, in verità: la teoria evoluzionistica ha ad esempio ridotto la frontiera, si naturalizza l’uomo a patto di socializzare la natura, che appare così straordinariamente borghese, saggia ed economa. Le teorie che pretendono di spiegare i comportamenti umani attraverso la biologia prosperano, perché producono la speranza illusoria di una oggettivizzazione, ma non può esistere qualcosa realizzato dall’uomo che possa essere puro e indiscutibile, esulare dalla sua dimensione soggettiva, e non costituire ancora una volta un modo di produrre conoscenza e di interrogarsi. La scienza non è così lontana dalla filosofia o dalla religione: ad esempio, quando le neuroscienze si avvalgono di tecniche di neuroimmagine e l’etologia di osservazioni naturalistiche di animali, entrambi sono solo un modello con cui confrontarsi.
Lacan lo racconta in modo chiaro: quando Watson utilizza un topo in laboratorio, il topo spontaneamente non fa nulla, quando lo affama impara a raggiungere il cibo in un labirinto, ma il topo già non esiste più, perché l’animale dell’esperimento è ciò che resta di un topo, per l’azione di un uomo che ha bisogno di una cavia da osservare per credere di comprendersi meglio. Nell’esperimento pavloviano, si smonta un bisogno, per arrivare a conoscere la percezione del cane solo nella misura in cui viene interrogato sulla percezione dell’uomo, cioè, che Pavlov se ne accorga o no, ogni esperimento istituisce un taglio nell’organizzazione organica di un bisogno, e questo è un aspetto che l’essere umano conosce tanto bene che Lacan (1957) può paragonare l’esperimento di Pavlov al disturbo psicosomatico.
Un bisogno è denaturato dall’instaurazione di un desiderio da interrogare, l’istinto è sopraffatto dalle pulsioni e questo nega per sempre all’uomo la possibilità di accedere al sapere di quell’istinto, c’è una conoscenza dunque che gli è preclusa, una ignoranza ontologica che solo il debile mentale, con la sua costante oscillazione tra due discorsi, rifiuta. Anche laddove le reazioni umane sono primordiali e automatiche, diventano un effetto di parola esattamente come gli esperimenti sono racconti di uomini. Il cane di Pavlov non si interroga su cosa vuole lo sperimentatore da lui, come non lo fanno gli organi del corpo umano, ma bisogna tenere a mente che ci si intromette nella dualità speculare dello stimolo-risposta per concatenare degli eventi, creare una sequenza e definire un ordine, dare un senso. Gli eventi non sono più “cardinali” ma “ordinali” e quindi sono definiti esclusivamente dalla loro posizione reciproca. Se ne manca uno, si nota subito, come l’elemento che manca a completare una collezione. Il significante nella sua topologia.
Se la biologia non basta, la scienza torna all’uomo per svelarne i segreti, con una riflessione etica che è l’altra faccia della deriva eugenetica e che si rifugia spesso nella religione. Quando si parla di malattia, in particolare di disabilità o disturbi psichici, è difficile mantenere differenze chiare e insieme spingersi fino al limite di cosa definisce l’essere umano. Quando tutto manca, la coscienza di sé e dell’altro, la cura del corpo, o la parola, cos’è che ci deve essere “almeno”, cosa non può mancare per esser certi di essere ancora umani? Ciò che caratterizza l’uomo è “l’altruismo a lungo termine”, scrive Temple Grandin, biologa affetta dalla sindrome di Asperger. Lei si racconta nei suoi libri e per lei, la continuità con gli animali è chiara, si dice capace di pensare come i bovini, li definisce dei savants, come gli autistici, in “Pensare in immagini” (1997) descrive se stessa “come una mucca che sgambetta in un prato in un giorno di primavera”… È la sua condizione di autistica, scrive, che la posiziona vicina agli animali, come loro, infatti, pensa per immagini e questo la allontana dalla maggior parte delle persone, che utilizzano un “pensiero verbale”: le relazioni non le sono “naturali”, non hanno senso il sesso e l’attrazione, le bugie e gli equivoci sono un mistero, la morte non la interroga. Temple Grandin è famosa per aver progettato i migliori impianti di macellazione in America e in questo non vede alcuna contraddizione, perché lei, come gli animali, scrive, non ha consapevolezza della morte, né reagisce ai ricordi, vive solo in un presente fatto di immagini dove prova paura per le piccole cose intorno che appaiono fuori posto.
La sola eccezione che si concede nella sua logica di pensiero è credere in Dio: le è inevitabile, perché non tollera pensare che il mondo sia disordinato e senza senso. È nel suo bisogno di ordine la funzione limite della sua umanità, per il resto resta ai margini, sulla soglia, a guardare quello che succede alle persone, imparandolo come uno scienziato ma senza alcuna possibilità di sentirlo profondamente. E. Laurent (1997) nelle sue Réflexions sur l’autisme, ha proposto che il destino del godimento nell’autismo sia di restare su un bordo, quello del caos, verrebbe da dire, caos che ha i suoi sinonimi italiani in “macello” e “bordello”, a richiamare i grandi misteri per l’uomo, la morte e la sessualità.
Nella pratica si osserva un continuo rimandare a frontiere, soglie, limiti, una questione topologica, di nuovo, che cerca all’esterno un’organizzazione del mondo caotico: il margine di un gruppo, il corpo dell’altro, la soglia della porta su cui ci si sporge per poi fare marcia indietro, la guida invisibile dei mobili o dei muri, un oggetto duro che rassicuri. Se il soggetto comincia da un taglio, in sua assenza, secondo Houzel (2006), mancano gli opposti, l’idea che si possa fare un giro su sé stessi passando dal bordo superiore a quello inferiore, dalla faccia interna a quella esterna della banda di Moebius, una stretta di mano non permette più di sentire l’altro e il proprio confine insieme. Spesso, scrive Temple Grandin, può essere complicato per un autistico tenere a mente la distinzione tra il proprio corpo e la sedia che lo regge, distinguere in quale parte del corpo ha sbattuto, elaborare contemporaneamente sensazioni che provengono da due organi distinti, addirittura percepire il dolore. E anche gli altri assumono aspetti parziali: si focalizza l’attenzione su un dettaglio, l’odore dei piedi, il sapore dei capelli, si esclude lo sguardo o la voce, si utilizza un braccio dell’adulto per raggiungere gli oggetti come fosse una protesi distaccata. 
L’inconscio si pone in partenza come chiusura e l’uomo si istituisce su un taglio, la condanna di una divisione, tra l’Es e l’Io, tra il neonato e il corpo della madre, tra soggetto e oggetto, tra parole e cose, tra maschi e femmine. Questo comporta che non tutto è possibile, che non c’è reciprocità nei rapporti, che si è mortali e che non si può sapere tutta la verità. Un taglio istituisce una perdita e la mancanza impone una ricerca. L’uomo inizia così a chiedersi cosa vuole l’altro da lui e perché il mondo funziona in questo modo, inizia a produrre significanti, così personalizza la propria esistenza e ritrova fuori di sé il suo stesso difetto. La separazione segue l’alienazione originaria a raccogliere la paura di un crollo che c’è già stato, il linguaggio è una questione di scambio più che di parola, quel fort-da in cui ci si esercita perché non se ne ha padronanza. 
Come le mucche non si spaventano negli impianti perché non si fanno domande sulla morte, come il cane di Pavlov non si chiede del rapporto tra il suono del campanello e il cibo, così nell’autismo e nella debilità in generale c’è un eccesso di sapere, per cui non è data la possibilità di interrogare gli eventi, di incuriosirsene a sufficienza per addentrarsi in una ricerca che resta senza una conclusione e senza senso, perché costituisce in modo misero e definitivo una interpretazione soggettiva. Non ci si autorizza al sapere, si difende strenuamente e cartesianamente il granello di verità, ma è solo un granello, che occulta la propria impotenza e amplifica quel limite che appartiene a tutti gli uomini.
Quando tutto manca, è la presenza di un’altra persona a rendere umani, perché impone continuamente uno scambio, la domanda ‘che vuoi?’, la necessità di una differenza. Per fare una persona, ce ne vogliono due e la seconda non deve dimenticare la propria stupidità: per un atto di fede che non ha bisogno di convocare la scienza, non si può che continuare ad attribuire un senso ad un segno, supporre una intenzione dietro una stereotipia, così ci si lascia trasformare in cavie per permettere all’altro di comprendersi sperando che accada qualcosa da un momento all’altro. È una questione di altruismo a lungo termine.

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